Durante dieci anni di riavvicinamento a Montecalvo e un’assenza precedente di altri diversi decenni, un’idea delle condizioni economiche, sociali e culturali della mia terra d’origine me la sono fatta. La espongo qui invitando chiunque vorrà a criticarla in senso negativo o positivo che sia. Naturalmente mi aspetto delle ragioni e considerazioni comprovate o da fatti notevoli o da ricostruzioni logiche fondate storicamente. Qualche anno fa affermai con una certa sicurezza che il nostro paese è stato fondato intorno all’anno Mille da gente, dicevo, “raccogliticcia” come dimostrava tra l’altro il fatto che i nuovi residenti non si erano neanche messi d’accordo su come chiamare il loro insediamento (o, peggio, non se ne erano nemmeno dati cura) con un nome proprio. Monte Calvo è una generica indicazione geografica o descrittiva d’ambiente probabilmente risalente alla conquista romana e ai loro disboscamenti radicali. Gente raccogliticcia in fuga da qualche disastro ambientale, saccheggio o epidemia che mai si amalgamarono a formare una comunità vera e propria.
Non avrebbe senso dire questo se Montecalvo non fosse ancora oggi una “non comunità” profondamente divisa in se stessa. Nel corso della storia che si svolgeva in posti neanche troppo distanti dal nostro territorio, i nostri progenitori non vi presero mai parte come protagonisti o, raramente, se non quando alcuni di loro andavano via. Sfido i lodatori acritici del nostro passato a fare dei nomi che abbiano guadagnato meriti al paese in quanto tale.
Vi hanno giocato ruoli preminenti il clero e la borghesia dei redditi agrari (ansiosa quest’ultima di essere considerata aristocratica) almeno fino agli anni Cinquanta. Costituivano insieme una èlite che però non ha mai saputo fare il benessere della comunità di appartenenza, come questi tipi di conservatori hanno pur fatto, bene o male, altrove in Italia. Da noi hanno badato soltanto ad accaparrarsi la terra e ad escluderne i loro impoveriti e miserabili coltivatori e braccianti. Con l’Unità d’Italia si allearono ai liberali piemontesi per impedire che l’ultima promessa fatta da Franceschiello con l’acqua alla gola, di dare la terra ai contadini in base alla legge Murat, non venisse fatta propria dai nuovi liberatori; con i democristiani tentarono ancora di tenere lontani dalla proprietà terriera i poveri contadini quando però questi erano gia tutti pressoché scappati in terra d’emigrazione; con la loro perenne ignoranza e ignavia (un vero signore nemmeno studia) non valorizzarono mai la produzione agricola perché diventasse proficua per tutti. Con qualche eccezione: il capitano De Cillis negli anni Cinquanta che tentò di migliorare la qualità del vino paesano.
Non avrebbe senso dire questo se i discendenti dei vecchi redditieri non fossero diventati lodatori dei presunti meriti e delle glorie inesistenti dei loro precursori. Quanto al ruolo del clero non dico niente, perché pur vellicando credenze poco fondate sulla genuinità di fede dei compaesani, almeno sta facendo oggi quello che si può per salvare qualcosina del nostro patrimonio culturale.
Proseguo sempre con grande sintesi perché mi rendo conto del poco spazio a disposizione e perché spero di avere qualche risposta che mi consenta di proseguire questo argomento in modo più discorsivo. Intanto dico in modo chiaro il mio pensiero sui notabili montecalvesi detentori della proprietà della terra e delle professioni liberali sino agli anni Cinquanta: non hanno mai fatto niente per salvare i loro contadini e gli artigiani dai veri e propri fallimenti sociali quali sono state le grandi migrazioni della fine Ottocento e inizio Novecento e quella del secondo Dopoguerra. Esse hanno impoverito economicamente, socialmente e culturalmente il nostro paese, consegnandolo a una marginalità che dura ancora oggi e che lo isola rispetto a comunità che hanno condiviso la stessa sua storia e che ora si stanno dando una mossa. Forse hanno una maggiore sensibilità civile e comunitaria?
I nostri emigrati si sono per la maggior parte perduti nel mondo. I loro figli, nipoti e pronipoti, se vengono in visita da noi, guardano con indifferenza a volte divertita ai modi di fare paesani. Non ne capiscono la mentalità, oltre che la lingua. Fortunatamente, non si sentono vittime della grande ingiustizia patita dai loro genitori e nonni costretti a scappare dal paese per la disperazione. Anche perché notano che gli unici ad avere iniziative di un qualche successo economico in paese sono tutti ex emigrati ritornati all’ovile ormai salvi dalle vecchie, castranti soggezioni ai signori di una volta.
Nella presentazione di un libro sugli emigrati mi hanno detto che ci si è riferiti incidentalmente e in modo, credo, improvvido, alla mia ipotesi sull’esistenza di una comunità romana a Pratola di Tressanti. Sarebbe stato detto più o meno: “Che ci frega se a Pratola c’erano o meno dei romani?” Naturalmente io non mi sono meravigliato perché proprio la vicenda dei reperti latini di Pratola e Tressanti segna l’inizio ed è il segnale dell’incuria storica dei nostri compaesani. A parte il fatto che io insieme ad Alfonso Caccese, ho iniziato da lì per capire come si sono comportati e come si comportano coloro che “dovrebbero sapere” verso preziosi reperti che in modo lapidario ci dicono da dove proveniamo e che fine ingloriosa stiamo facendo. Ripeto per chi non sa o non vuole sapere: i nostri antenati eruditi cominciarono a trovare sepolti preziose lapidi in quei paraggi, ma essi stessi, già all’inizio dell’Ottocento (una lapide fu spaccata e messa per dispetto a pavimentare una via) le disprezzarono e i loro discendenti dei nostri giorni o le tengono nascoste, o le fanno sparire, come è capitato una lapide impreziosita da una epigrafe di interesse non funerario che faceva sino a un anno e mezzo fa da coperchio a una fontana abbeveratoio di Pratola. Sparita nella più completa indifferenza. Questi reperti e siti archeologici, lo devo dire io?, potrebbero accendere la curiosità nei pochi turisti che capitano persino da noi ogni tanto, magari attirandone altri, come sa Gaetano Caccese della UISP di Ariano.
Riprendendo con gli emigrati, dico che essi sono stati persi per sempre come le lapidi di Tressanti. Il miglior modo di ricordarli è sorridere del modo ingenuo e sentimentale con cui i loro discendenti cercano di immaginare le terre d’origine della loro famiglia. Pensate che un mio zio americano diceva ai figli che il giardino del palazzo ducale di Montecalvo non aveva l’uguale se non in quello della reggia reale di Caserta! Per parte mia ho fatto il mio dovere verso di loro traducendo e pubblicando in un opuscolo e sui due siti (il vecchio e il nuovo) di “Irpino.it, estratti dal libro di Louis A. De Furia, The Road from Ariano, Livingston, NJ (USA), 2002. I brani fanno sorridere ma anche provare una profonda malinconia.
Ciao,
M. Sorrentino
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