Questo testo rispecchia più o meno fedelmente quel mondo di affetti divisi, patrimonio comune sino agli anni Sessanta del Novecento e raccontato durante i lavori nei campi o dalle donne alle fontane e ai lavatoi pubblici. Fino a quegli anni, qualche ragazzo o ragazza ancora partiva dal paese per l’America, dopo aver contratto matrimonio per procura con qualche discendente degli emigrati di inizio Novecento. Lo zio in questione è il mio prozio Pompilio Iannone.Quando, una ventina di anni fa, chiesi a un mio amico, che aveva pure lui dei parenti americani, di tradurre in inglese questo testo, come aveva già fatto con un’altra mia poesia, mi rispose che, nonostante la bellezza struggente del contenuto, non se la sentiva. Aveva troppo rispetto per i parenti, ormai americani di seconda e terza generazione. Rispetto che lui estendeva alla memoria dei parenti emigrati scomparsi, che si erano trovati di fronte una realtà sconosciuta nel Nuovo Mondo, dove incontravano difficoltà non meno dure e pesanti, rispetto a quelle che si erano lasciati alle spalle e che affrontavano da sempre quelli rimasti in paese. Ma almeno negli USA c’era il lavoro e, nell’immaginario dei parenti in Italia, questo significava dollari e quindi benessere. Probabilmente erano gli stessi emigranti ad alimentare queste aspettative
LU ZIJU DI L’AMERICA Ogni ffamiglia tinévaalliménu nu zìj’a l’Amèrica,e ssi jév’avantànnu.Èrnu pariénti partùtivèrzu lu Nòviciéntu.Nuji crijatùri facèmm’a sfida,ògnùnu pi dimustrà ca lu zìju sujuera lu chjù rriccu e cca ogni ttantummannàva nu paccu a l’Italia,chjinu di bèlle cóse:pazziarèddr’e cciculàte.Quann’a Mmunticàlivu,arrivava nu cristiànuda Niv’Jòrc o da Clivilànda,curréva vóce pi lu paésech’era purtàtu nu cuscìnu di dòlliri,e nnuji uagliùni, curijùsi,jèmm’a bbidé e cquasi sèmp,era nu viécchju, cu na trippa ròssa,na giacchètta lònga,nu cappiéddr’a ttaràddru,na caravàtta lària e cculuràta,nu cauzóne senza curréja,cu li ttirànti,‘ncòpp’a nu paru di scarpi nèuri,cu la pónta janca.Ma dòlliri ‘n zi ni vidévunu!Pur’ìju tinéva cèrtu zìj’amiricàni:duji pi pparte di mammae duji pi pparte di pàtrimu.Unu sulu scrivévae cci mmannàva nu dòlliruo duji dòlliri a la vóta.Era frate a mmammanònna,la mamma di pàtrimu.‘Nd’à na léttira, vuléva sapénidi quisti e di quist’àuti,dint’a n’ata, s’abitàmmuancóra ‘nd’à lu casìnu,e mmannàv’a ssalutànili ssignurìni Di Marcu.L’ati zìji nun diérnu chjùségnu di vita, s’èrnu scurdàtudi la mamma e di lu padre.Lu zìju ca ci scrivéva,nu’ mminètt chjù a l’Italia.Facéva lu sacristànu‘nd’à na chjiésija, a Niv’Jòrc,e cci mmannàva ritrattidi li figli e di li nipùti.Na vóta arrivàrnu dóji fòtu:una, andó iddru stéva cu lu véscuvu,e l’ata, tirata ‘nnant’a la casa sója,vascia, di lignàmu,cu na spaddréra jancae nu giardìnu chjìnu di fijùri.‘Ncòpp’a ‘sta fòtu,paréva justu nu miricànu,cu li llènti e li capìddri curti,di quiddri ca minévun’a lu paese.N’annu ci mmannàvu nu paccue ppi l’avéni, mamm’avètta firmàninu saccu di carti a la pòsta.Èrmu pròbbitu cuntènti!Quannu l’aprèmmu, dintuci truvàmmu dóji paparèddredi ceralòidi, na bibbiae ccèrtu panni viécchj’e llàrijica puzzàvunu di naftalina.Nu cauzóne di quiddru paccu,cu na pèzza ‘mpónt’a nu dinùcchju,l’ausàmmu pi ffà nu pagliàcciudint’a l’uórtu.Accussì capèmmu,ca si vulèmmu ca lu zìjuminéss da l’Amèrica,cu nu cuscìnu di dòlliri,c’èmma fa na cullètta nuji,pariénti pòviri di lu paese! | LO ZIO D’AMERICA Ogni famiglia avevaalmeno uno zio in America,e se ne vantava.Erano parenti partitiverso il Novecento.Noi ragazzini ci sfidavamo,ciascuno per dimostrare che il proprio zioera il più ricco e di tanto in tantospediva un pacco in Italia,pieno di belle cose:giocattoli e cioccolato.Quando a Montecalvoarrivava un uomoda New York o da Cleveland,correva voce per il paeseche aveva portato un cuscino di dollari,e noi ragazzi, curiosi,andavamo per verificare e quasi sempre,era un vecchio, con una pancia grossa,una giacca lunga,un cappello a tarallo,una cravatta larga e colorata,dei calzoni senza cintura,con le bretelle,su un paio di scarpe nere,con la punta bianca.Ma dollari non se ne vedevano!Pure io avevo degli zii americani:due per parte di mammae due per parte di mio padre.Uno solo scrivevae c’inviava un dollaroo due dollari alla volta.Era il fratello di mia nonna,la madre di mio padre.In una lettera, voleva saperedi questi e di quegli altri,in un’altra, se abitavamoancora nel casino,e inviava salutialle signorine De Marco.Gli altri zii non diedero piùsegno di vita, s’erano scordatidella propria madre e del padre.Lo zio che ci scriveva,non tornò più in Italia.Faceva il sacrestanoin una chiesa, a New York,e c’inviava fotodei figli e dei nipoti.Una volta giunsero due foto:una, in cui lui era col vescovo,e l’altra, scattata davanti casa sua,bassa, di legno,con uno steccato biancoe un giardino pieno di fiori.In quest’ultima foto,lui pareva giusto un americano,con gli occhiali e i capelli corti,di quelli che arrivavano in paese.Un anno ci spedì un paccoe per ritirarlo, mia madre dovette firmareun’infinità di carte alle poste.Eravamo proprio contenti!Quando lo aprimmo, dentrovi trovammo due paperettedi celluloide, una bibbiae certi indumenti vecchi e larghiche puzzavano di naftalina.Un paio di calzoni di quel pacco,con una toppa su di un ginocchio,l’adoperammo per uno spaventapasserinel nostro orto.Così capimmo,se volevamo che lo ziovenisse dall’America,con un cuscino di dollari,dovevamo fargli una colletta noi,parenti poveri del paese. |
. Non potevano scrivere che lì si stava male o che il lavoro era duro. E poi inviavano foto, ritràtti, con abiti nuovi e alla moda. Qualcuno si spingeva oltre: si faceva fotografare accanto a un’auto di cui non era proprietario.
Molti giovani emigrati, partiti alla disperata ricerca di un riscatto economico e sociale, dopo qualche anno non diedero più notizie di sé alla famiglia d’origine. Insomma, era come se si fossero scordati di tutto e di tutti. Genitori compresi. Anche alcuni uomini ammogliati si dimenticarono di moglie e figli. E le mogli sventurate rimaste in paese, capita l’antifona, mettevano al mondo altri figli con l’amante di turno, ma col cognome del marito. Non per vendetta, ma solo per colmare un vuoto affettivo e tirare a campare.
I flussi migratori, iniziati nella seconda metà dell’Ottocento e cessati nel 1924, due anni dopo la presa del potere in Italia da parte della dittatura fascista, portarono negli USA qualcosa come 5.000.000 di italiani. I montecalvesi furono circa 1500 (cfr. My name is Pumpilio – Montecalvesi ad Ellis Island tra il 1892 e il 1924, a cura di Arturo De Cillis, stampato dagli Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo SpA di Roma nel 2008) e tenuto conto che il numero medio dei residenti in quegli anni era poco più di 4.000, il numero dei partiti è davvero enorme. Furono interessate dall’esodo più o meno tutte le famiglie.
Gli emigranti erano distinti in 1^, 2^ e 3^ classe. Mentre quelli di 1^ e 2^ classe approdavano direttamente a New York, quelli di 3^, rappresentati da appartenenti alle classi sociali umili con prevalenza dei contadini, dovevano indicare i loro referenti sul suolo americano e, una volta sbarcati, erano condotti sull’isola di Ellis Island, dove erano sottoposti a una visita medica meticolosa e, se necessario, tenuti in quarantena. Chi non era ritenuto idoneo per lavorare, veniva respinto e se ne tornava in Italia. E ciò rappresentava per lui un disastro, perché in genere aveva investito tutte le sue risorse nel costo del biglietto per il viaggio.
Ora ad Ellis Island non sbarcano più emigranti in cerca di lavoro, ma vi ha sede la Ellis Island Foundation con i suoi archivi, vale a dire il più grande museo al mondo dell’emigrazione, a cui si può accedere attraverso il suo sito.
Con un certo orgoglio ho trovato traccia del passaggio per Ellis Island dei miei nonni, quello materno e quello paterno, di due prozii e di alcuni cugini di mia madre. Mancano altri prozii e un bisnonno. Solo i nonni e il bisnonno, dopo alcuni anni di lavoro, fecero ritorno in paese. Infatti, non tutti gli emigranti restavano in America. I contadini rientrati in famiglia, coi risparmi si comperavano della terra da coltivare e così si affrancavano dalla mezzadria o dal dover fare li jurnatiéri, braccianti a vita, o li uarzùni, i boari, per massari prepotenti. Ma dell’esperienza americana, da inveterati patriarchi e padri-padroni, tramandavano un’opinione negativa. Con l’esclamazione “Amu fattu la Mèrica!” si indicava l’insuccesso in un fine che ci si era prefissi. Gli afroamericani erano definiti, in senso spregiativo, facci niéuri o tizzùni, visi neri o tizzoni. E le contadine erano solite esclamare: “Ohji Signore, scànzini!” (Signore, evitaceli!). Raccontavano ca ddrà cummannàvunu li ffémmini, che lì comandavano le donne. Dei maschi parlavano per raffronto con alcuni tipi del paese: “Jà nu tòtir’a la miricàna!” (È stupido come un americano!); “Jà nu tarallón’a la miricàna!” (È grosso e superficialone come un americano!). Tuttavia, l’emigrazione verso gli USA arricchì la parlata montecalvese con più di 40 termini angloamericani dialettizzati e quattro soprannomi: Ariòp, Cialì, Sciumécca e Trumànnu; sbrigati da to hurry up, Charlie Chaplin, calzolaio da shoemaker e soprannome derivato dalla deformazione del cognome del presidente USA Truman.
Tra le due guerre mondiali vi erano state delle partenze sporadiche, grazie ai cosiddetti “Atti di richiamo”, che consentivano il ricongiungimento con i familiari già residenti negli USA.
Negli anni Cinquanta, molte famiglie partirono per il Sud America, con la speranza di fare fortuna soprattutto in Argentina e Venezuela. Nei decenni successivi, le ondate migratorie, in forte ripresa, avevano privilegiato il Nord Italia e i paesi europei. Dapprima la Francia e poi Inghilterra, Svizzera, Belgio, Olanda e Germania.
Poi è calato, su tante storie di persone, il velo del silenzio. Io non riesco a immaginarmi chi e quanti siano i discendenti dei parenti emigrati dei miei genitori, e come vivano oggi i cugini americani. E se la sorte è stata benigna con loro, e se talvolta pensino che qui hanno ancora dei legami di sangue. Solo una cugina di mia madre tornò per una breve visita in paese, subito dopo la seconda guerra mondiale, accompagnata da un ragazzino, il suo primogenito che si chiamava Giugno. Ma forse il nome vero era Junior. Rientrata col bastimento a Cleveland, il figlio morì dopo qualche anno. Insomma, si moriva giovani anche in America!
Per saperne di più, di quelle lontane e tribolate storie familiari, si possono consultare le lettere degli emigranti, presso gli archivi dei musei etnografici e della scrittura popolare.
Ora che la nostra società, per molti aspetti, si è americanizzata, non si può non ripensare con qualche tristezza e nostalgia a tutto un mondo di sofferenze e disperazione, quello dell’emigrazione, che è tramontato con la civiltà contadina. (Questo testo, elaborato per il Corriere - quotidiano dell'Irpinia e per la rivista on line Irpinia ed Irpini di Donato Violante, è nel sito www.angelosiciliano.com)
Zell, 10 gennaio 2011 Angelo Siciliano