“Songo arrivati puro li munticalvisi”. Bastava che il pullman dei pellegrini provenienti da Montecalvo facesse timido capolino sul piazzale contiguo al santuario di San Gerardo a Materdomini perché, dai vocianti e colorati capannelli degli astanti, si levasse – percepibile distintamente anche da chi non ne udisse il suono ma fosse in grado comunque di interpretare il movimento delle labbra – quel commento stentoreo e quasi divertito: “songo arrivati puro li munticalvisi”! Per anni mi sono chiesto – nell’ affardellamento delle migliaia di interrogativi inutili ed assurdi con i quali ciascuno di noi affolla, quasi ingolfandoli, la mente ed i ricordi – da dove i solerti e determinati individuatori della genia montecalvese - in versione pellegrinaggio tardo-settembrino - riuscissero a ricavare le loro granitiche certezze circa la provenienza di quell’aggregazione eterogenea di rara umanità.E solo in tempi recenti io, che a San Gerardo ci andavo da bambino e che oggi mi avvicino (sia pure “trotterellando”, con spocchiosa presunzione di gioventù ben radicata nella mente e nel corpo) ai cinquant’anni, sono finalmente arrivato al punto di

 svelare l’arcano. La soluzione a lungo ricercata è, in realtà, molto banale. Quando, negli anni addietro, il popolo di Montecalvo – e con “popolo” intendo l’interazione di tutte le componenti sociali, sessuali ed anagrafiche dell’antica comunità – valicava i confini del proprio territorio ed approdava alle mete predestinate, fossero esse vicine o lontane -

Montevergine come Lourdes - , non poteva non essere immediatamente individuato, in ragione di un preciso particolare, assolutamente irrilevante nella cerchia delle mura domestiche ma visibile, visibilissimo – addirittura, scioccante – all’esterno di quelle mura. Il riferimento è all’abbigliamento che ha reso peculiari ed uniche le donne di Montecalvo per tanti decenni e che ancora oggi – sia pure, tristemente, circoscritto ad un numero sempre più sparuto di “esemplari” – funge quasi da suggello cromatico alla tempra delle nonne nostrane che, per tutta una vita, non hanno indossato altro che quegli abiti. Non descriverò nel dettaglio la fantasiosa armonia del vestito femminile montecalvese, inopportunamente definito, anche in paese, “lu costume”, quasi si trattasse di indumenti che si indossano per uno scopo od un’occasione particolare e non facessero invece parte del “mostrarsi” quotidiano di intere generazioni muliebri. Non lo descriverò perché già altri lo hanno fatto in modo egregio e, soprattutto, perché nessuna descrizione, per quanto accurata, potrebbe rendere adeguatamente l’idea di quello che può “raccontare” un ordito multicolore che non è come un comune vestito che “sta addosso” a chi lo usa, ma costituisce un tutt’uno con chi lo indossa, rende peculiare il contesto in cui si inserisce. Soprattutto, fa, di una donna come tante, un qualcosa di diverso e di peculiare: ne fa una “montecalvese”, altrimenti definita “pacchiana” – sia pure con intenti non diffamanti e proprio in ragione dell’antico abbigliamento –, nella sua splendida, altera, inconfondibile, coloratissima unicità. Le imprime, insomma, un sigillo di riconoscibilità che, nel tempo e nello spazio, ha finito per attribuire alle nostre donne il ruolo di “bandiera”, festosa e multicolore, di tutta una comunità. Erano “pacchiane montecalvesi” le donne che si presentavano, nei primi decenni del secolo scorso, davanti agli arcigni controllori di Ellis Island, invocando il permesso di ingresso negli Stati Uniti per potersi ricongiungere ai loro cari, già sbarcati nello stesso porto qualche anno prima. Quanto scherno – stupido e ingeneroso scherno – avranno provocato quelle vesti variopinte, quei “maccaturi” svolazzanti, quelle “cammisole” con i pizzi ricamati? “Pacchiane” erano anche le donne costrette dalla crudeltà della natura a scavare con le mani per recuperare i corpi dei loro parenti seppelliti sotto le macerie del terremoto del 1930. Anche a salutare il principe Umberto, in visita a Montecalvo prima di diventare effimero sovrano di un effimero regno, accorsero le “pacchiane” , le quali, per l’occasione, avevano impreziosito il già ricco vestito con gli ori riservati alle occasioni solenni. E sono state le “pacchiane” a condizionare l’alternanza degli schieramenti politici alla guida del comune di Montecalvo, interpretando nel corso degli anni l’appartenenza alla “Croce” (democrazia cristiana) od alla “Spiga” (partito comunista) con sanguigna determinazione. Da ultimo, “pacchiane montecalvesi” sono state le nonne di tutti quelli della mia generazione, laddove le nostre madri hanno dismesso l’abbigliamento tradizionale degli avi, optando per i più comodi e funzionali vestiti “moderni”. Sicché le “pacchiane” di Montecalvo si avviano verso l’ineluttabile, dolorosa estinzione. Pochi, pochissimi anni ancora e, per vedere quelle vesti variopinte, quei “maccaturi” svolazzanti e quelle “cammisole” con i pizzi ricamati saremo costretti a chiedere un appuntamento alle ragazzine del gruppo folk. 

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