15 Agosto a Montecalvo Irpino

Contrariamente a quando accade nei paesi vicini, Montecalvo Irpino non ha una grande tradizione nei festeggiamenti in onore della Madonna dell’Assunta alla quale è dedicata la Chiesa Madre che campeggia alla sommità del paese.
Quand’era tempo di mietitura, i mietitori, dopo pranzo, si mettevano sui ferri
della piazza, col caldo e aspettavano, I padroni delle masserie arrivavano sulle giumente: ploc-ploc, sui basoli della via. Col dito o la punta della frusta, indicavano: « Tu, tu e tu, domani venite da me, a mietere con le spese ».  Le mezze falci (incapaci) non erano assunte. Il padrone con la masseria grossa, assumeva una squadra di uomini che si davano da fare nel campo. Per pranzo: una caldaia di gnocchi e ragù con la cotica. Diceva zia Rosa, la moglie del padrone: « Se ci fiocca (formaggio) non ci piove (ragù), sulla polenta ». Finito di mietere e di trebbiare, il quindici agosto, uomini maturi e ragazzi sceglievano il padrone, per andare garzoni  e fare i bifolchi dietro le mucche o i pecorai per un anno intero. Tutto per le spese, qualche soldo e un maialetto.  A Santa Maria, l’otto settembre, si poteva cambiare padrone.  Ogni quindici giorni, tornavano in paese, gli uomini dalle mogli e i ragazzi dalle madri.  Con le migrazioni, dopo il Sessanta, i garzoni hanno preso altre strade. Qualcuno si è fatto i soldi e la masseria  si è comprata dal padrone di una volta, Nella stalla,  ora c’è un trattore per arare; il latte si compra in negozio, il grano si miete con la mietitrebbiatrice il fieno si fa con la falciatrice.

Percorrendo in auto le strade del Mezzogiorno d’Italia, in Irpinia, Puglia, Basilicata e Calabria ci s’imbatte spesso in antiche masserie e case agricole abbandonate. I loro muri perimetrali resistono ancora alle ingiurie del tempo, ma i tetti sono in parte o in tutto sfondati. È la conseguenza dell’abbandono, a seguito dei notevoli cambiamenti succedutisi, anche nel mondo contadino, nella seconda metà del Novecento. Le masserie, le Regiae massariae, erano il sistema d’organizzazione feudale dell’agricoltura, introdotto nel XIII secolo dall’imperatore Federico II, giunto sino a noi a metà Novecento. Ad occhio, s’intuisce che alcune di quelle masserie dovevano essere splendide, quando erano abitate e funzionanti, con centinaia di ettari di terra coltivata. Ancora oggi se ne può immaginare il decoro e la vitalità. Orgogliosi dovevano esserne i massari, che di solito ne erano gli affittuari, perché i proprietari, nobili o borghesi, risiedevano in città. I massari, che giravano a cavallo o col calesse (sciarabàllu), da quelle case-aziende gestivano, da padroni assoluti, stuoli di lavoratori ingaggiandoli nelle piazze dei paesi. Qui si radunavano i braccianti (jurnatiéri), che accorrevano talvolta anche da paesi lontani, per offrire le proprie braccia, dove si presumeva che vi fosse lavoro a sufficienza. Alcuni dei lavoranti per i massari, per la verità solo una piccola minoranza, erano assunti a metà agosto, con contratto annuale, e prendevano servizio l’otto settembre successivo. Si trattava di ualàni (bifolchi, bovari), lavuratóri (uomini in grado di svolgere differenti tipi di lavori), serve, picuràli e purcàri (pecorai e porcai). A parte le serve, erano detti tutti uarzùni (garzoni) e facevano ritorno alle proprie case ogni quindici giorni (quinnicìna), per rinsaldare il rapporto affettivo familiare, per la pulizia personale e la biancheria pulita. Lo ualànu era il capo dei dipendenti del massaro. Ne aveva la responsabilità, era pagato meglio degli altri, ma si alzava all’una di notte, per avviare le mucche al pascolo, e di giorno arava la terra con un aratro (pirticàra) tirato da due buoi aggiogati (rétina, parìcchju di vuóvi). Grave era lo sfruttamento del lavoro minorile sia nelle campagne che nelle botteghe artigiane. Già dall’età di cinque o sei anni, i minori, senza distinzione di sesso, erano obbligati a collaborare nel lavoro dei campi con i propri familiari. Alcuni maschietti erano affidati dalle proprie famiglie ai massari, come uarzùnciéddri, e lavoravano per anni interi come pastorelli. La loro paga annuale era costituita di solito da un maialino, che era ritirato dalla famiglia di appartenenza. Crescevano da analfabeti e tornavano a casa dalle proprie madri, solo in occasione delle feste religiose importanti che si tenevano in paese. Anch’essi potevano cambiare padrone a metà agosto. I dipendenti assunti per un anno intero erano detti salariati fissi, perché avevano diritto a ricevere vitto e alloggio dal massaro. Percepivano il salario per l’intero anno, sia in denaro che in beni, cioè grano, formaggio e maialini da fare allevare alle proprie consorti. Alcuni uarzùni ottenevano, dal massaro, la concessione di qualche pezzo di terra a mezzadria (tèrr’a la parte), da far coltivare alle proprie consorti. I braccianti, invece, erano assunti a tempo determinato, manodopera per i lavori più vari: zappatori, mietitori, raccoglitori, potatori, boscaioli ecc.. Erano pagati a giornata. Un’altra figura rilevante era il fattore. Egli curava gli interessi, facendone spesso le veci, del grande proprietario terriero che aveva scelto di dedicarsi personalmente alla coltivazione delle proprie terre, senza cederle a un massaro. Le colombaie delle masserie sono disertate da decenni dagli abituali frequentatori, i colombi. In qualche edificio rurale abbandonato, se i locali a piano terra sono ancora agibili, li si adopera come deposito di macchine e attrezzi agricoli, e non è raro notare, all’esterno di queste strutture, qualche carcassa malconcia di vecchia auto, in disuso e non rottamata, monumento involontario della civiltà tecnologica che è mutata velocemente. Molte case rurali furono edificate e consegnate ai contadini con i terreni agricoli circostanti, in attuazione della Riforma agraria. Spesso i criteri spartitori erano clientelari, ma quelle case furono abbandonate quasi subito, non appena ci si rese conto che le condizioni di vita erano misere, a causa di un reddito insufficiente, anche per una minima sussistenza. Oggi sono dei ruderi e rappresentano la parte più evidente degli avanzi della civiltà contadina, che ha tentato di innovarsi soccombendo alla modernità. Testimoniano di epoche in cui il 70-80% della popolazione, per lo più analfabeta, traeva sostentamento dalla coltivazione della terra e in parte dall’allevamento del bestiame. Sono i resti di una civiltà secolare, probabilmente millenaria, a cui l’archeologia sociale e l’antropologia, se non l’avessero già fatto, potrebbero rivolgere con profitto la propria attenzione. Il tempo provvederà a cancellare tutto, sotto l’azione disgregatrice degli agenti naturali. La società del passato era divisa in classi e i contadini ne rappresentavano quella più umile. Ma lo stesso mondo contadino era variegato e diverse categorie o sottoclassi lo caratterizzavano. C’erano i contadini che abitavano in paese, che si recavano in campagna solo per lavorare la terra da cui traevano sostentamento, e quelli che vivevano stabilmente in campagna (zacquàli di fóre), nelle case rurali. Anche i massari vivevano in campagna, ma avevano più potere e sostanze, e in genere stavano economicamente meglio di tutti. I contadini che coltivavano poca terra, di proprietà o in affitto, per poter vivere dovevano integrare il proprio reddito lavorando anch’essi presso terzi come braccianti, per alcune settimane l’anno. C’erano poi i braccianti e i garzoni. I primi vivevano in assoluta precarietà, con la speranza di essere scelti e ingaggiati come lavoratori giornalieri, mentre i secondi potevano contare su un salario annuo sicuro. Alcuni pastori allevavano un certo numero di pecore e capre. A volte erano le mogli, le pastore, a condurre le bestie al pascolo lungo i sentieri erbosi comunali o demaniali. Però dovevano fare attenzione a che le siepi private confinanti non fossero danneggiate dalle proprie capre, perché il rischio era di doverne rispondere ai proprietari. Costoro, in caso di danno, constatato alla presenza di testimoni, potevano ricorrere alla perizia di un perito agrario e pretendere d’essere risarciti (purtà lu ‘ngigniéru e ffà pavà lu cignàle). Lungo il tragitto le pastore filavano la lana cardata, che tenevano avvolta in un grembiule (vandisìnu), adoperando il fuso, e la sera avrebbero sferruzzato per fare le calze. D’inverno, per scaldarsi, portavano con sé un recipiente metallico (cuócciu o buàtta) con del fuoco acceso dentro, che alimentavano con rametti secchi raccolti strada facendo. I ciucai si guadagnavano da vivere effettuando trasporti per i piccoli borghesi e quei contadini che non possedevano bestie da soma. Tra tutte queste sottoclassi c’era una netta distinzione, seppure invisibile, e talvolta tra i loro appartenenti si consumavano vere e proprie intolleranze, anche umilianti. La promozione sociale riguardava in genere solo i figli dei massari che, grazie ai mezzi paterni, si potevano dedicare con successo agli studi e avere così modo di accedere a posti di rilievo nella società, e diventare dei piccoli borghesi. Da decenni è scomparsa l’aia. Fino a metà Novecento su di essa si procedeva alla trebbiatura (scugnàni) dei cereali, con l’ausilio delle bestie: asini, cavalli o buoi che pestavano i covoni trascinando, agganciato a una lunga corda, un pesante masso (tufu). Si lavorava in mezzo al baccano e alla confusione, secondo una tradizione consolidata. I contadini più poveri, la trebbiatura la facevano a braccia, adoperando forconi e lunghe mazze ricurve in punta, con cui battevano i covoni. Spesso le famiglie si aiutavano vicendevolmente, non solo tra parenti, e il tutto favoriva un clima di socializzazione e solidarietà. Pian piano anche al Sud si erano andate diffondendo le trebbiatrici meccaniche (màchini ca scógnunu). All’inizio del Novecento arrivarono quelle funzionanti a braccia, con una grande ruota che faceva da volano. Poi furono introdotte quelle a motore. Questo era autonomo e alla trebbiatrice era collegato con una lunga cinghia di trasmissione. In tutti i casi una moltitudine di uomini, donne e ragazzi lavoravano alacremente sull’aia, per giorni o settimane, ammazzandosi di fatica. Si respirava polvere e si sudava tanto con la canicola di luglio e agosto, per mettere da parte il raccolto dei cereali per l’inverno e anche la paglia per le bestie. Poi, a partire dagli anni Settanta, le mietitrebbiatrici autolivellanti, in grado di operare anche sui declivi delle colline, hanno risolto ogni problema con la mietitrebbiatura effettuata direttamente nei campi coltivati e la consegna, ai relativi proprietari, dei sacchi pieni di grano a domicilio. Da decenni sono scomparse le spigolatrici, affascinanti figure ottocentesche, celebrate nei dipinti e in qualche opera letteraria. Esse raccoglievano tra le stoppie le spighe cadute ai mietitori e ne facevano mannelli da battere poi con mazze o forconi, per separare il non molto grano dalla paglia. Sono scomparse queste attività, gli animali e tutti gli attrezzi adoperati. L’emigrazione, che agli studiosi ha fatto scrivere d’esodo biblico, è stata una valvola di sfogo fondamentale per le masse contadine meridionali, che aspiravano a migliorare le proprie condizioni di vita e conquistarsi una qualche promozione sociale, tra insidie e difficoltà, in città o nazioni sconosciute, spesso ostili agli immigrati. Essa ha solo accelerato un declino inevitabile, perché la terra, a differenza dell’industria e degli altri settori economici emergenti, non offriva prospettive di sviluppo allettanti. Con la progressiva scomparsa del dialetto, e di quel poco che ancora sopravvive della civiltà contadina, l’opera si va completando. Un capitolo si sta chiudendo definitivamente. Ne serberanno memoria gli archivi, le biblioteche e i musei etnoantropologici. È mutato anche il paesaggio rurale in questi decenni, sia per l’introduzione di nuove colture che per l’uso diffuso delle macchine agricole che hanno sostituito il lavoro umano. L’aratro meccanico ha contribuito a rendere spogli d’alberi i campi destinati alla cerealicoltura, alla coltura del tabacco e dei pomidori. In qualche caso ha anche cancellato antiche necropoli, situate poco profonde rispetto al livello del terreno coltivo. Su molte colline sono stati piantati alti pali con eliche. Sono i simboli nuovi dell’energia rinnovabile e di un ambiente meno inquinato. I centri storici di molti paesi, anche a causa dei terremoti, sono stati aggrediti dal cemento armato e il loro aspetto è notevolmente mutato rispetto ai decenni passati. Col tempo i braccianti sono spariti come categoria di lavoratori. Nel secondo dopoguerra erano stati tutelati nei loro diritti dalle Camere del lavoro, organizzate a livello comunale. Poi avevano subito per anni il triste fenomeno del caporalato. In questo caso erano dei mediatori illegali, i cosiddetti caporali, ad assumerli e accompagnarli sul posto di lavoro, per conto dei datori di lavoro. A fine giornata, i caporali trattenevano per sé una parte della paga spettante ai lavoratori. Sono spariti pure i ciucai, i cavallai, i carrettieri e i carbonai. Anche altre categorie sono scomparse e con esse i mestieri. Basti pensare a tutta la moltitudine d’artigiani che animavano i vicoletti e i quartieri dei paesi: calzolai, sarti, falegnami, secchiai, ramai, stagnari, fabbri, maniscalchi ecc.. Il falegname (falignàmu, mastu) era una di quelle figure che, con la sua opera, scandiva la vita della comunità, dalla nascita alla morte. Creava culle, madie, tavolieri, infissi, mobili e bare. La maggior parte dei mobili oggi è prodotta industrialmente e ci si approvvigiona al Nord. Sono spariti i cantinieri e le cantine, luoghi della mescita del vino, dove gli uomini si riunivano la sera o nei pomeriggi festivi. Chiassosi, giocavano alla morra o alle carte, scordandosi delle angustie quotidiane. D’inverno, col bel tempo, si sfidavano a bocce negli slarghi dei paesi. Al momento che più contava, quello della bevuta, pur di far dispetto a compagni ed avversari, tracannavano il vino senza preoccuparsi dell’ebbrezza. I ragazzi si accontentavano di molto meno. Si disputavano con la trottola (strùmmulu), col gioco sotto il muro (azzécch’a mmuru) o col gioco delle mattonelle (stacciu), bottoni o monetine. Da decenni sono sparite le trattorie e le taverne nei paesi, dove si poteva mangiare o alloggiare, anche con il proprio asino, mulo o cavallo, per poche centinaia o migliaia di lire. Girando per i mercati settimanali e le fiere dei paesi, non si riscontra più un attrezzo agricolo, tipo zappa, falce, accetta, roncola o coltello che sia prodotto ancora a mano, con perizia e maestria, da un fabbro nella sua fucina. Ciò che si può osservare o acquistare sono i prodotti seriali dell’artigianato industriale, di rozza e frettolosa fattura, e materiale scadente. Anche in questo è scomparso o mutato il mondo contadino e il suo indotto. Da alcuni decenni la plastica, nelle sue svariate forme, ha rivoluzionato la produzione d’oggetti d’uso quotidiano che, grazie al basso costo, hanno trovato larga diffusione e invaso anche il mondo contadino, contribuendo a renderlo inautentico o fasullo. Un’altra figura emblematica che è sparita da decenni nei paesi del Sud, è il banditore, divulgatore ufficiale di fatti e notizie che potevano interessare la comunità. Dopo un lungo squillo di tromba, egli comunicava ai compaesani l’arrivo in paese di qualche venditore ambulante con mercanzie a prezzo conveniente, il nome della cantina che aveva esposto la frasca per la mescita del vino nuovo, gli obblighi amministrativi da ottemperare su disposizione del sindaco ecc.. Di solito il banditore era un tipo pittoresco, sul cui conto si scherzava e ironizzava. Ma la sua era una funzione importante e socialmente utile, ed egli era autorizzato dal Comune d’appartenenza. I contadini non cantano più durante i lavori agricoli. Non si fanno più serenate alle innamorate e le mamme non intonano ninne nanne ai loro bambini. Del ricco e vario patrimonio canoro popolare rimane poco, grazie a qualche volenteroso gruppo folk locale, che si esibisce nelle sagre di paese. Sono spariti anche i poeti contadini e i poeti pastori, i soli capaci d’inventare nuovi canti e melodie, con cui affascinare gli ascoltatori. Sono molti decenni che per le fiere e le feste dei paesi non passano più i cantastorie. Verso il 1970, a Palermo sparirono i cantastorie e i “cuntisti”, cantori e raccontatori di fatti eclatanti di cronaca nera, mafia, briganti e cavalieri. Alla stessa epoca risale, probabilmente, la scomparsa di queste figure popolari  veri e propri artisti di piazza  anche nel resto della Sicilia. Nelle sagre paesane non c’è più traccia o memoria dei venditori di fortuna. Essi esibivano un pappagallino su un trespolo che, tra tanti foglietti piegati e accostati ordinatamente in una scatoletta, a comando ne sceglieva uno, su cui c’era stampata “l’improbabile fortuna” di chi si faceva scucire l’obolo per conoscere il proprio futuro. Sono scomparsi anche i venditori di sorbetto, la cui materia prima, la neve, era prelevata dai nevai (nivére) allestiti, dopo le abbondanti nevicate invernali, in appositi locali attrezzati di montagna. Figure emblematiche del mondo contadino erano le fattécchje, i mavàri e li masti d’attìja (fattucchiere, maghi, guaritori). Ad essi si faceva ricorso per fatture d’amore o di morte, per conoscere la propria sorte o quella d’un figlio disperso in guerra, per guarire da qualche malanno (fa ‘ncantà nu male). Il malocchio (maluócchji) erano in grado di toglierlo in molti, facendo cadere, in successione, tre gocce d’olio d’oliva in una bacinella d’acqua pura e recitando, al cospetto di chi se ne riteneva vittima, qualche formula magica. Le janare, streghe giovani e affascinanti, erano assai temute e molte precauzioni e antidoti, come il sale cosparso per terra, erano posti in atto per evitare che di notte esse penetrassero nelle case, attraverso le fessure delle porte, per importunare e ammaliare le persone in preda al sonno. Le scope di saggina e i falcetti appesi all’interno delle porte erano un diversivo perché si distraessero. Anche la presenza spiritica era molto avvertita e temuta, e i verosimili racconti sui fantasmi spaventavano nottetempo non solo i bambini. Le mammane (vammàni) svolgevano una funzione fondamentale. Si prodigavano per le gestanti contadine, assistendole nel mettere al mondo i figli nelle dimore povere e disadorne. Talvolta, in caso di gravidanze indesiderate, aiutavano le donne ad abortire, infrangendo un divieto perseguito dalla legge. Ma il mondo contadino era capace di slanci e generosità impensabili. Buona parte dei trovatelli (li figli di puttàna), affidati alla Sacra Rota, era allevata da famiglie contadine che, data l’alta moria di propri bambini per selezione naturale, li prendevano in affidamento e li trattavano come i propri figli legittimi, tirandoli su fino al compimento della maggiore età. È rimasto poco o nulla di tutti quei comportamenti ritualizzati che coinvolgevano le comunità paesane nella gestione del lutto: veglia funebre, pianto rituale e consolo. Tuttavia ancora permane la consuetudine della veglia del defunto nella propria casa. Altrove la morte è stata rimossa. Si muore in ospedale e le salme dei defunti attendono negli obitori l’ora del funerale. Finalmente è arrivata l’acqua potabile in quasi tutte le case, grazie alla rete di distribuzione idrica, ma sono scomparse le fontane pubbliche, o meglio quella funzione particolare di utilità sociale, cui esse assolvevano nella società contadina. Erano soprattutto le donne a recarsi alle fontane (jévun’a l’acqua), sia per l’approvvigionamento idrico che per fare il bucato. Questa consuetudine era di fondamentale importanza per le piccole realtà. Consentiva il dialogo tra le persone, che avevano così modo di approfondire la conoscenza reciproca, facilitando la circolazione di notizie e fatti riguardanti gli appartenenti alla comunità. Le ragazze potevano cogliere l’opportunità di farsi notare dai giovanotti e aumentare le probabilità di trovare un buon partito. Sono pressoché scomparse, presso i contadini, le usanze d’allevare e ammazzare il maiale, panificare e cuocere il pane nel forno di famiglia, adiacente alla propria abitazione. Se si va alla ricerca dei sapori antichi e autentici della gastronomia meridionale, riscoperta e rivalutata da diversi anni, come dieta mediterranea, dagli esperti americani e inglesi del settore, chi quei sapori li conobbe e non li ha dimenticati, si accorge di quanto sia difficile ritrovarli oggi. Tuttavia anche al Sud si cerca di stare al passo con i tempi e molti prodotti locali sono salvaguardati col marchio doc o altre forme di tutela, ma la strada, per migliorarne la qualità, diffonderli e imporli sul mercato, appare comunque faticosa e irta di difficoltà.

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