Vennero le vicende tragiche dei baroni e le fatali conseguenze della loro congiura. La situazione creata da Ferdinando I° e da suo figlio Alfonso, determinò una sedizione collettiva e una consociazione dei principali baroni del regno, giurando essi di essere uniti a combattere il re e suo figlio Alfonso, al lora duca di Calabria. A fortificare quell’ accordo il papa Innocenzo VIII, emetteva un breve contro il medesimo re. Ma questi, avvertendo il pericolo, con abilità politica, previa improvvisa pacificazione col papa, seppe far andare a monte ogni cosa.
Così le cose, apparentemente, tornarono normali per brevissimo tempo, poiché terribili furono le vendette di Ferdinando contro i disgraziati baroni. Tra questi baroni federati, vi fu anche il nostro conte Don Pietro Guevara G. Siniscalco del regno. Naturalmente, quella non fu un’azione separata, ma ebbero l’appoggio delle persone più in vista delle loro terre. La nostra contea lasciò devoluta al re e amministrata da un governatore (Vedi: « La congiura dei baroni del regno di Napoli contro il Re Ferdinando I. » Camillo Porzio – Stampato in Roma nel 1565).
Alla morte di Ferdinando, anno 1493, raccolse la eredità del regno Alfonso II°, suo figliuolo, che, in anno 1494, per crisi finanziaria del regno, impoverito e spossato dalle guerre e dagli sconvolgimenti, vendeva, la terra di Montecalvo, di Corsano e terre annesse, insieme ai diritti giurisdizionali su le terre istesse, alla contessa di Fondi Caterina Pignatelli ed Ettore, suo fratello.
Questo punto è di notevole importanza per la storia di Montecalvo, poichè, con i primi albori del l’evo moderno, si scrivevano nuovi fatti negli annali della storia paesana, mentre la vecchia contea arianese si sgretolava perdendo molti territorii. In seguito a tante spese cagionate dalla perdita del regno e dalle spese sostenute per riacquistano, le finanze erano di venute ristrettissime e per sopperire ai bisogni precisi, Re Alfonso II° vendeva varie terre del reame ai baroni napoletani.
Giova notare, prima che Napoli fosse stata capo del regno, i re solevano abitare nelle diverse provincie. In quegli anni la nobiltà del regno rimaneva di spersa in esse.
Stabilita la sede regia in Napoli, i nobili si accentrarono nella metropoli, lasciando a governo dei feudi, paesi o castelli abitati , per lo più , i loro figli maggiori, e per le città regie, i regi amministratori. Al tempo dei re aragonesi, da principio si compensarono gli uomini meglio distinti nelle armi: dopo la ribellione baronale, le possessioni feudali passarono ai più nobili o capi della città.
« Iuxta l’incluso particolare – cavato dalli Regii quinternii appare che in anno 1494, Re Alfonso se condo – asserendo havere et possidere come cosa sua propria – le terre di Montecalvo et Cursano con suoi castelle – seu fortellezze Casali habitati et inabitati, Ville, territorio ,et Matina di Pietra piccola ,et aliis iuribus ad dicta castra spectantibus et pertinentibus , site in provincia de Principato ultra ,devolute alla Regia Corte ,per rebellione del quondam Pietro de Guevara G. Siniscalco del Regno ,commessa contro re Ferrante suo P.ne ,per li bisogni di detta sua R. Cor te , vende in feudum dette terre al Ill.e Caterina Pignatelli contessa de Fundi , et a D. Ettorre Pignatello (Vicerè di Sicilia) suo fratello , pro se suisque here dibus natis et iasciturjs , in perpetuum cum baiula tione officio maioris actor , mero mistoque imperio , banco iustitiae et cognitione primarum causarum civilum , criminalium et mixtarum et cum oninibus et quibus cumque aliis ad dictas terras spectantibus et pertinentibus prout melius et plenius tenuerunt… D.no franche et libere, eccetto dal feudal servizio et altro che si deve alla R. Corte, con dichiarazione , quod donec dicta comitissa vixerit dominari tenere et pos sidere debeat terras ipsas , et earum fructus percipere et de eis faciat voluntatem ,et Ettor ipse illam impe dire non possit .Qua mortua , dictus Ettor et sui hae redes et successores , statim absque alia investitura sed p. v. vigore habeat teneat et possideat terras ip sas cum ob. antedictis , et hoc pro pretio F.re septe mille – con retassarli tutto quello di più che dette terre valessero » ut in quinterno diversorun 2° fo!. 489. Istrumento rogoto pel Notato Angelo di Benedetto di Ruo.
Fu stipulato il presente atto, il 24 marzo – 1494 – primo anno di re Alfonso II°d’ Aragona . Per le abbreviazioni poi, diciamo, che tutte le formule notarili medioevali possono leggersi per intero nella
« Pratica dei notari » di Ubaldo Ubaldini – Cap. X.
Questo documento conteneva gran parte dei destini dei nostri avi, all’alba dell’evo moderno, che nasceva con la scoperta del nuovo mondo.
Senonchè, gli avvenimenti precipitarono rapida mente in peggio. Il nuovo re Alfonso II°, succeduto al padre, giudicandosi incapace a fronteggiare il bollente Re francese Carlo VIII, e precorrendo gli avvenimenti, si vide costretto a rinunziare la corona a favore del figlio Ferdinando II° fuggendo in Sicilia. Ferdinando, a sua volta, non potendo opporsi con le armi al nemico e sperare in una possibile vittoria, gli rendeva le città ed i castelli « il di 21 Febbraio 1495 ».
Per facilitare il buon governo Carlo VIII re di Francia , abolì ogni privilegio nobiliare della fortunata casta baronale e distribuì le cariche del regno. La contea di Ariano fu data a Pietro de Rohan Dominus de Giè il quale vi teneva un comandante – « Petrus de Roham – dominus de Giè – Marescallus Franciae, marchio Vasti agnonis – Ariani Apicisques Comes -1495. ».
Per metterla in una certa condizione militare, si pensò di assoldare buona parte di militi d’oltre Alpi di conterranei e dei paesi vicini, vedendosi una promiscuità di gente dalle origini più diverse, per razza per nazionalità e per lingua, riducendo la contea nella più lacrimevole crisi finanziaria. Verso la fine del l’anno precedente, vi era stato una terribile carestia di grano.
Non appena Carlo partiva d’ Italia, già i popoli malcontenti e sempre pronti a ribellarsi ai pessimi dominatori, prendevano un atteggiamento ostile verso i nuovi arrivati.
Il 31 marzo 1495 si costituiva in Venezia una lega contro Carlo VIII re di Francia. Di essa fecero parte: Massimiliano di Germania, Ferdinando « il cattolico » re di Spagna, come re di Sicilia – la repubblica veneta – Papa Alessandro VI e il duca di Milano Ludovico Sforza « il Moro » – Ne seguì che gli orgogliosi francesi, dopo pochi mesi di malgoverno, in cui suscitarono i più profondi rancori, venivano cacciati manu militari » dall’italia, per cedere nuovamente il posto agli aragonesi.
Nel Regio Archivio di Napoli – fol: 217 – si nota l’entrata della terra di Montecalvo ,tassata per fuochi N. 195 , per tutto l’anno 1498 , in cui si dice: entrate delle terre che furono del olim G. Sinescalco .Ivi si legge ancora la tassa formata per Montecalvo, Corsano e Ginestra in anno 1465,pagata dall’ex G. Siniscalco Pietro Guevara.
PIGNATELLI, Ettore. – Nacque attorno al 1465 da Carlo Pignatelli, signore di Monticello, e da Mariella Alferi. Milite napoletano, sposò nel 1489 donna Ippolita Gesualdo, figlia di Sansone conte di Conza e di Costanza di Capua. Dal loro matrimonio nacquero Camillo, Isabella e Costanza.
Acquistò nel 1501 da re Federico d’Aragona le terre di Borrello, Rosarno, Misiano e Monteleone, Torre di Bivona, Cinquefrondi, con il feudo detto Morbogallico (8 giugno) e ottenne il titolo di conte di Borrello (12 giugno).
Luigi XII, mentre era re di Napoli, lo assolse nel marzo 1502 dal reato di fellonia per avere partecipato alla ribellione contro Carlo VIII e lo reintegrò nel godimento dei suoi beni. Gli concesse inoltre il titolo di ciambellano e di consigliere e lo volle alla sua corte. Durante il regno di Ferdinando il Cattolico, fu insignito nel 1506 del titolo di conte di Monteleone (oggi Vibo Valentia), eretto a Ducato nel 1527 per privilegio di Carlo V. Un anno dopo, nel giugno 1507, gli fu conferito l’ufficio di scrivano di razione e di revisore della Real Camera di Sommaria; fu poi nominato luogotenente del Gran Camerario. Partecipò alla battaglia di Ravenna e fu prigioniero dei francesi a Milano nel 1512. Si trovava nelle Fiandre, alla corte di re Carlo d’Asburgo, quando il 22 gennaio 1517 fu nominato luogotenente del Regno di Sicilia e capitano generale, mentre era viceré Ugo Moncada, il quale, dopo la rivolta del 1516, era fuggito dall’isola. Poté insediarsi solo il 1° maggio 1517, poco prima che in estate maturasse a Palermo la congiura di Giovan Luca Squarcialupo.
Nominato viceré di Sicilia il 28 maggio 1518, l’11 novembre successivo il Parlamento siciliano lo abilitò a esercitare qualunque ufficio e beneficio nel Regno come cittadino di Palermo e regnicolo siciliano, privilegio grazie al quale nel 1524 ottenne l’ufficio di maestro portulano per tre vite, già posseduto dal conte di Cammarata Federico Abatellis.
Malgrado il perdono concesso nel 1519 da Carlo V ad alcuni esponenti della nobiltà titolata, allontanati dalla Sicilia e successivamente reintegrati, che avevano giocato un ruolo di primo piano nelle vicende di quegli anni, almeno sino al 1522 il panorama politico nel Regno rimase fluido e il clima avvelenato da sospetti: nell’aprile 1523 fu scoperta da Luis Fernández de Córdoba y Zúñiga, conte di Cabra e duca di Sessa, ambasciatore di Carlo V a Roma, la congiura filofrancese dei fratelli Giovan Vincenzo, Federico e Francesco Imperatore, maturata negli anni del loro esilio a Roma per la partecipazione ai fatti del 1516 e nella quale risultarono implicati anche il cardinale Francesco Soderini e Marcantonio Colonna. La repressione fu esemplare e senza alcun cedimento. Oltre ai tre fratelli Imperatore, furono condannati a morte tra gli altri il barone di Cefalà Federico Abatellis, omonimo cugino del conte di Cammarata, Nicolò Vincenzo Leofante e lo stesso conte di Cammarata, e i loro beni confiscati.
Il viceré riuscì a riportare la calma nell’isola grazie anche all’aiuto determinante del baronaggio, che in cambio egli rivalutò come strumento di potere nel tentativo di garantirsene la fidelitas, e nei cui confronti adottò un atteggiamento tollerante quando i suoi esponenti si resero protagonisti di atti violenti e criminosi. Inoltre la sua linea d’azione morbida fu orientata a risolvere attraverso mediazioni e compromessi la conflittualità interna, come nello spinoso ‘caso di Sciacca’ (1528-29), che contrappose le famiglie Luna e Perollo, ma con esiti incerti. Ne risultò ostacolato il corso della giustizia e vanificata l’azione dei magistrati, come ebbe a denunziare all’imperatore Carlo V l’avvocato fiscale del tribunale della Regia Gran Corte Antonio Montalto, che con Pignatelli era entrato in contrasto. E se Montalto chiedeva di fatto a Carlo V di rafforzare la componente ministeriale nel governo siciliano, il viceré invece cercò di porre sotto controllo giudici e ufficiali regi, disciplinandone l’attività: incaricò i giuristi messinesi Pietro de Gregorio e Salvo Sollima di curare l’edizione dei capitoli del Regno, editi nel 1522; fece pubblicare nel 1526 le Pandectae reformatae et de novo factae circa solutionem iurium officialium regni Siciliae con l’obiettivo di mettere ordine nella complessa materia del funzionamento dei tribunali; emanò diverse prammatiche sull’esercizio della giustizia e disciplinò il diritto di foro per gli stranieri. Particolarmente rilevanti furono i provvedimenti assunti in materia di finanza pubblica, soprattutto in relazione al problema della circolazione della moneta falsa. Pignatelli diede inoltre un forte impulso allo sviluppo dello Studio catanese, ratificandone nel 1522 l’approvazione dei capitoli di riforma generale.
Sul fronte dell’organizzazione militare la sua attività fu volta a contrastare le incursioni barbaresche sulle coste dell’isola, offrendo aiuto logistico a Ugo Moncada, che nel 1519 era stato nominato comandante dell’Armata reale e nel 1520 aveva occupato l’isola di Gerbe, rendendola tributaria del re di Sicilia. Nel contesto della guerra nel Mediterraneo, nel 1523 Pignatelli accolse a Messina Philippe de Villiers de l’Isle-Adam, gran maestro dell’Ordine gerosolimitano di S. Giovanni, e i suoi cavalieri, appena estromessi dall’isola di Rodi; il 29 maggio 1530 ricevette nelle sue mani il giuramento di fedeltà dell’Ordine prima dell’insediamento a Malta, feudo del Regno di Sicilia concesso ai cavalieri da Carlo V. Il viceré Monteleone promosse inoltre l’opera di fortificazione delle principali città costiere dell’isola (Palermo, Trapani, Milazzo, Siracusa e qualche anno più tardi anche Messina), affidandone l’incarico all’ingegnere padovano Piero Antonio Tomasello, attivo in Sicilia dal 1523 al 1537, anno della morte, con il quale collaborò negli ultimi anni anche l’ingegnere Antonio Ferramolino, che fu in seguito al servizio del viceré Ferrante Gonzaga.
Nell’attività cantieristica fu coinvolto anche Antonio Belguardo, uno dei protagonisti dell’architettura palermitana del primo Cinquecento, particolarmente esperto nella costruzione di superfici voltate. A lui Pignatelli affidò i lavori di ampliamento e trasformazione della chiesa dei Sette Angeli, destinata a divenire la sede della Confraternita imperiale dei Sette Principi Angeli fondata dallo stesso viceré (1523) ed espressione di una complessa costruzione politico-religiosa di cui devozione angelica e fedeltà all’imperatore furono componenti fondamentali. Successivamente, nel 1529 il viceré Monteleone fondò, annesso alla chiesa, un monastero delle minime dell’Ordine di S. Francesco di Paola, di cui era devotissimo. Nel 1533 fondò a Palermo la Compagnia della Carità, il cui scopo era la visita e il servizio degli infermi dell’Ospedale di S. Bartolomeo; a Borrello (1512) e a Rosarno (1526) conventi di domenicani; a Monteleone il convento dei Frati minori osservanti annesso alla chiesa di S. Maria di Gesù (1533).
Mostrò interesse verso la cultura figurativa e plastica, come testimoniano non solo i numerosi oggetti di pregio presenti nella sua dimora di Palermo, ma soprattutto le committenze affidate a Vincenzo degli Azani da Pavia e Antonello Gagini, artisti apprezzati nel panorama culturale dell’epoca. Particolarmente ricca era la sua biblioteca, come documenta l’inventario redatto pochi giorni dopo la sua morte.
Morì da viceré il 7 marzo 1535 a Palermo, dove gli furono tributati solenni funerali, e secondo le sue volontà testamentarie fu sepolto a Monteleone presso la chiesa di S. Maria di Gesù, dove aveva fatto traslare – disponendo che fossero riposte in un sepolcro di marmo bianco opera dello scultore Antonello Gagini – le spoglie del figlio Camillo, conte di Borrello, a lui premorto nel 1529 a Bari, combattendo contro le truppe di Francesco I che avevano invaso la Calabria.
Nel testamento del 5 ottobre 1527, Pignatelli lo aveva designato suo erede universale, dopo aver vincolato la successione al grado di primogenitura in perpetuo secondo l’istituto del maggiorascato per il quale aveva ottenuto regolare licenza regia (privilegio di Granada del 7 dicembre 1526). In un successivo testamento, del 24 ottobre 1531, istituì il nipote Ettore, primogenito di Camillo e di Giulia Carafa, come erede universale di tutti i suoi beni mobili e immobili nel Regno di Napoli, nel Regno di Sicilia e nell’isola di Malta (il feudo La Marsa), del Ducato di Monteleone e della Contea di Borrello così come erano uniti e vincolati in un unico corpo indivisibile.
Il suo epitaffio fu scritto dal poeta e umanista Antonio Minturno, vescovo di Crotone, che era stato precettore dei suoi tre figli: «Hectora qui destrera excessit, qui mente Catonem / Minoem sepiro, relligione Numam, / Pignatellus hic est Hector, Trinacrius annos / Ter senos presess, dux, comes, hicque iacet».
Su Pignatelli pesò il giudizio di Tommaso Fazello, suo contemporaneo, che ne tacciò il comportamento negli anni delle rivolte di ignavia e di viltà, giudizio poi ripreso anche da Giovanni Evangelista Di Blasi.
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