Sékoma
Nello slargo che costeggia lo scalone d’ingresso della casa comunale, a sinistra salendo, è posto, poggiato sul lastricato, un grosso parallelepipedo in pietra viva, lungo metri 1,48, largo metri 0,67, alto metri 0,64, del volume di circa metri cubi 0,64 e del peso approssimativo di 13 quintali. Si tratta di un reperto molto antico e, stando al parere di una studiosa della materia, dovrebbe essere unico nell’Italia continentale con quella forma. Diversamente, “lastre” con la stessa funzione, si trovano negli scavi di Pompei e altrove.
Qualche riferimento per inquadrare, scientificamente, questo importante reperto. A Selinunte, in Sicilia, addossata alla parete esterna degli uffici degli Scavi, dal lato che guarda verso i templi dell’Acropoli, c’è una di queste “misure legali incavate in lastre di pietra”. Questi reperti avevano una funzione metrologica. (Cfr. A. Salinas “Tavole di misura” NScavi, 1884) .
La dizione esatta di queste “pietre di misura” è “sékoma” , “come si ricava dall’epigrafe riportata su una lastra, tipicamente affine, di Delo e da due iscrizioni ateniesi” (Cfr. Sicilia Archeologica dell’aprile 1973 della professoressa Aldina Tusa Cutrone, del Museo archeologico di Trapani).
I latini, successivamente, chiamarono le loro “lastre” “mense ponderarie” (a partire dal 20 a.C.). *
Il significato di “sékoma” è: “Misura legale incavata in lastre di pietra comune o di marmo, in cui il peso e la misura di capacità sono in stretta relazione tra loro”. “Sekòmata” sono, invece, chiamati gli incavi rotondi.
In genere queste misure di capacità sono state rinvenute in luoghi pubblici (agorà, magazzini, botteghe) là, cioè, dove venivano depositate le misure tipiche delle città sulle quali si modellavano appunto i “sekòmata”, o nei santuari nel caso venissero votate a qualche divinità quale è il caso della “sèkoma” di Delo, dedicato ad Apollo e quella di Tarso, dedicata ad Hermes” (Mercurio per i Romani).
Ritorniamo alla nostra “pietra di paragone”. Il rapporto tra diametro, profondità, capacità dei “sekòmata” è il seguente (guardando frontalmente il blocco lapideo, dal lato della sovrapposizione, avvenuta posteriormente, degli stemmi). In fondo a sinistra: diametro cm 21, profondità della semisfera cm 10,5, capacità litri 24. Il “foro” che precede quello già esaminato ha le seguenti misure: diametro cm 19, profondità cm 8, capacità litri 18. Quello centrale, il più grande, ha queste dimensioni: diametro cm 52, profondità cm 30, capacità litri 73. L’altro a destra: diametro cm 32, profondità cm 22, capacità litri 32. I dati della capacità sono approssimativi considerato che i “buchi” non sono delle semisfere perfette. I fori di uscita dei liquidi, ad esclusione di quello di destra, sono posti nel lato posteriore al frontale.
La “sékoma” montecalvese serviva per verificare i liquidi. Lo dimostrano i fori di scolo posti frontalmente (a differenza di quanto scritto, forse per la fretta della pubblicazione, in un depliant fatto stampare dal Comune nell’estate del 2005. Il citato opuscolo attribuiva l’uso alla misura degli aridi). Per lo scarico degli aridi (grano, ecc.) i fori erano posti al di sotto del blocco di pietra. In quest’ultimo caso la “misura” era poggiata sopra a dei supporti.
L’ipotesi che la misura che si trova da noi fosse riservata ai liquidi e suffragata, oltre che dai fori frontali, dalle reseche esistenti alle imboccature degli incavi che servivano ad ancorarvi le lastre di piombo che foderavano l’interno dei coni, costituiti da pietra porosa che, senza la protezione metallica, avrebbero assorbito i liquidi misurati. Generalmente le “sékoma” sono datate a partire dal III e II secolo a.C. in poi, cioè in epoca ellenistica. Quelle conosciute hanno quasi tutte subito rimaneggiamenti posteriori, legati alle “migliorie” apportate ai luoghi e ai templi in cui erano custoditi (è il caso, forse, degli “stemmi” montecalvesi). Abbiamo fatto qualche verifica diretta nei luoghi dove questo tipo di “antichità” è conosciuto e studiato, per convincerci della similitudine del reperto nostrano con quelli già “verificati”. Nell’estate del 2003 siamo stati a Selinunte, nella Sicilia Sud occidentale. Le due “sékoma” ivi custodite sono in pietra tufacea. La nostra è più bella: è in pietra viva e meglio conservata, nonostante l’abbandono in cui è stata lasciata per tanti anni. Siamo, altresì, in possesso della foto, scattata da un nostro congiunto nell’estate del 1996, della “sékoma” che si trova nel castello di San Giorgio di Argostoli, nell’isola di Cefalonia (Grecia), simile alla nostra, con, però, solo tre “buchi”.
Questo pezzo, insieme agli altri già citati, presenta una caratteristica che dovrebbe giustificare la sovrapposizione degli stemmi comunali che si riscontra su quello di Montecalvo. Una delle facce, collocata sul lato opposto ai fori di “scolo” dei generi portati a verifica, è molto più spesso. Ciò giustificherebbe una manomissione successiva (ipotesi confermataci da anziani che ne conservano memoria). Più recentemente, nell’aprile del 2004, la rivista di archeologia “archeo” della De Agostini, ha pubblicato un lungo e documentato servizio sulla Libia archeologica. Tra i ruderi del mercato di Leptis Magna, in primo piano, c’è una bella fotografia di una “sékoma” con “fori (quattro) scavati nella pietra e usati (questi sì), per dosare il grano nel mercato, datato I secolo a.C.”, come si legge nella didascalia.
Come è arrivato a Montecalvo la nostra “sékoma”? Quasi certamente i Siracusani di Gerone che, nel 424 a. C. dalla Magna Grecia andarono in aiuto di Cuma, fondata, prima di Napoli, dai Calcidesi d’Eubea nell’VIII secolo a. C., passando per i nostri luoghi avranno formato una colonia stanziale, con usi e costumi propri. La “sékoma”, affidata in custodia a metrònomi o agoranòmoi, funzionari del mercato preposti alla sorveglianza di questi strumenti di misura affinché ne venisse controllata e, quindi, garantita la fedeltà da parte della pubblica autorità, era parte integrante della vita dei greci migranti. Solo così si può spiegare la presenza a Montecalvo di questo importante reperto che i nostri vecchi, fino a qualche decennio fa, continuavano a chiamare “pesa pubblica”. Anche noi, fino a quando non ci è stata data la dritta (primi anni del 1960), abbiamo continuato a chiamare la “pietra”, nei nostri articoli su IL MATTINO, come i nostri antenati. L’allora direttore del Museo Irpino, il professor Consalvo Grella, nostro amico e collega, ci suggerì il nome esatto. Fece di più. Ci mise in contatto con una esperta archeologa di Trapani, la professoressa Aldina Tusa Cutroni, redattrice di Sicilia Archeologica. L’esperta, dopo aver visionato le foto ed i grafici che le avevamo trasmesso, ci confermò l’ipotesi. Per quanto riguarda la sovrapposizione degli stemmi l’archeologa avanzò la supposizione di un rifacimento posteriore, sulla faccia più spessa, ad opera di un esperto scalpellino che fece il ”rilievo”, forse, per ingraziarsi la benevolenza di qualche regnate del tempo. La conferma della sovrapposizione posteriore degli “stemmi” ci è venuta, oltre che dai riscontri già citati, anche dai racconti dell’ing. Francesco Saverio Aucelli, nato nei primissimi anni del primo decennio del 1900. L’ispettore generale del Banco di Napoli ci raccontava che il padre, Nicola Maria Auciello, esperto pittore di affreschi che ha operato a Montecalvo nella seconda metà del 1800 (allora, nelle case patrizie, si “usava” affrescare i soffitti delle camere con scene bucoliche), era stato testimone della realizzazione delle sovrapposizioni. L’artista raccontava ai figli di aver visto la realizzazione degli “stemmi”, fatta da un esperto scalpellino pugliese, nei momenti di pausa dal lavoro di realizzazione di portali e cantonate dei palazzi gentilizi in restauro o costruiti ex novo. Quello scalpellino realizzò sul “monolite” abbandonato, nelle pause pranzo, gli stemmi che ora, consunti, lo caratterizzano e che, forse, più recentemente, hanno potuto ingenerare confusione nell’attribuzione dell’ “età”.
Per finire dobbiamo dare atto all’allora vice sindaco, architetto Antonella Panzone, di aver fatto recuperare, dal fontanile di piazza S. Pompilio dov’era abbandonato al vandalismo di tutti, il nostro reperto (per dirne una, la meno dannosa: i bambini si divertivano a fare la pipì negli incavi per vederla fuoriuscire dai buchi di scolo). Lo fece collocare nello spiazzo vicino al municipio, applicandovi una breve didascalia per far conoscere ai locali e ai forestieri l’importanza del “pezzo” e la funzione cui era destinato alcuni millenni fa.
Curiosità: la nostra sékoma è stata inserita nel terzo volume dell’Enciclopedia geografica “L’Italia paese per paese” edita da Bonechi di Firenze (1998). Nella sezione dedicata alla Campania (5 corposi volumi), da pagina 101 a pagina 103 del tomo citato, vi è una lunga scheda su Montecalvo, riccamente illustrata da stupende foto a colori. Nella prima pagina di detta scheda campeggia una bella immagine della nostra “antica pietra di misura”.
Per concludere e fare chiarezza è necessario, a questo punto, stabilire definitivamente una certezza: se la “nostra pietra” è una sékoma, come la si continua a chiamare e scrivere, bisogna datarla a prima di Cristo. Altrimenti non la si può appellare con quel nome.
Le sékoma, lo ripetiamo, gli esperti le fanno risalire ad epoca ellenistica (III/II secolo a.C.). In epoche più vicino a noi quelle “misure”, per la funzione cui erano destinate, non avrebbero avuto motivo di esserci.
Gia l’Imperatore romano Tito Flavio Vespasiano (9-79 d.C.), colui che mise la “tassa sulla pipì” facendo realizzare i “vespasiani” (latrine pubbliche), conosceva la “stadera”, progenitrice delle moderne bilance
La “misura legale scavata in lastra di pietra” non aveva più ragion di essere realizzata. Altri strumenti, a disposizione dell’ “annona”, sopperivano, con maggiore precisione, alle necessità di controllo pubblico. Quindi se la “pesa pubblica” nostrana la si vuole classificare come appartenente ad un periodo più vicino a noi, per esempio in epoca rinascimentale, come è stato scritto recentemente in un depliant, non può essere chiamata sékoma. Si tratterà al massimo di un “reperto” qualsiasi, senza nessun valore storico.
Se si è convinti che non abbia l’età che dovrebbe avere, (a noi risulta, dalle consulenze che ci sono state fornite, molto antica), la si chiami pure come si vuole, ma non la si classifichi “come antico reperto e come sékoma”. Se si accetta l’assunto che non è così antico, ripetiamo, senza presunzione, il “monolito” non ha nessun valore “primitivo”. Lo si porti pure in discarica, come già stava accadendo in occasione di alcuni lavori eseguiti al fontanile della piazza. Si salvò grazie al risentito e tempestivo intervento del professor Alfonso De Cristofaro che lo fece recuperare dal “cuppino”(mestolo, benna) della ruspa che lo stava portando a “lu munnizzaro”: Alfonso, viste vane le sue proteste, si sedette nella benna che già conteneva il reperto da portare in discarica e minacciò di farsi schiacciare dal monolito se fosse stato disperso. Questa ostinazione valse a salvare la “pietra” sottovalutata.
Se non ci fosse stata la “mediazione vivace” di Alfonso e della compianta mamma Giuseppina Di Molfetta, di quell’ ”antico e sottostimato reperto”, ancora più importante perché unico nell’Italia continentale, a Montecalvo se ne sarebbe cancellata la memoria.
Una recente pubblicazione sull’ “Area turistica dell’Ufita” continua a “confondere” la sékoma con la mensa ponderarla latina, facendone derivare il nome da quest’ultima. Sono due cose distinte e separate sia nella forma che nella sostanza: la funzione è la stessa. Le sèkoma, come già ampiamente ricordato, sono di epoca ellenistica; la “mensa ponderarla” è di epoca romana (derivante da un “campione” osco, “largamente ispirato al mondo greco” come scrive Antonio Varone, già sovrintendente degli scavi di Pompei, esperto della “materia”).