Le bolle della Malvizza   di Mario Sorrentino                       

Le bolle sono un fenomeno vulcanico, assimilabile vagamente ad una solfatara, con fuoruscita di gas e fango. Le emissioni mefitiche aumentano d’intensità e spettacolarità dopo le piogge. Il luogo è una “Mofeta” e nei pressi doveva trovarsi un santuario pagano dedicato alla dea Mefite, divinità degli inferi. La Malvizza è una contrada di Montecalvo Irpino, situata ai margini nord-orientali dell’Appennino campano. Frequentata dai cacciatori del paleolitico, abitata dal neolitico, è attraversata dal tratturo, detto la “Via Della Lana”, che da Pescasseroli (AQ) consentiva, sino alla metà del 1900, ai pastori abruzzesi la transumanza con le greggi fino a Candela (FG). L’area fu conquistata prima dai sanniti e poi dai romani. Questi vi fecero passare la Via Appia-Traiana che da Roma

 portava sino a Brindisi. Molti reperti sono stati ritrovati nell’area, appartenenti al neolitico, all’età del Bronzo e del Ferro, all’epoca sannitica e a quella romana. Resistono alle ingiurie del tempo alcuni ponti romani, alcuni dei quali ormai diruti. Le persone grasse erano ben

viste dalla gente. Sovente erano invidiate perché la pinguedine era considerata salute, giacché essa era la conseguenza d’abbondante nutrizione e costituiva una riserva in caso di carestie.

Relativamente a questa leggenda esiste anche una seconda versione che io ho raccolto, ma è tuttora inedita. San Nicola sarebbe p

assato per la taverna e avrebbe liberato tutti i bambini che l’oste malvagio teneva chiusi nella cassa, per poterli ammazzare e adoperarne le carni come pietanze per gli avventori. Alcuni luoghi, particolarmente suggestivi o notevoli per altezza, ubertosità o anche perché orridi, paurosi, spesso nelle credenze popolari si rivestono di un’atmosfera che, per il diritto o per il rovescio, ha a che fare con il divino, l’Aldilà. Basti pensare alle varie porte dell’Averno, per i nostri progenitori latini o latinizzati, agli alti luoghi su cui si elevano templi, ai boschi sacri, ecc. Un eminente studioso delle religioni, Mircea Eliade, in un suo studio, Images et symboles, Parigi, 1952, propone un’efficace sintesi del simbolismo, legato ai luoghi sacri, definendolo con il termine di centro. Il

centro, per Eliade, è il punto di intersezione tra i tre livelli nei quali, in modo universale, i popoli della terra suddividono il cosmo: il Cielo, la Terra e gli Inferi. Parlando del centro egli dice: “E’ qui che può accadere una frattura dei livelli e, nello stesso tempo, stabilirsi una comunicazione tra queste tre regioni”. Ora, nel componimento di Siciliano intitolato Li ‘mbóddre (Le Bolle), è narrato che un taverniere, che dava da mangiare carne umana ai suoi ospiti, è scaraventato da Cristo, che passava di là, all’Inferno insieme alla sua taverna. Dopo di che, in quel luogo, la terra ribolle un po’ per avvertimento ai peccatori, forse, e un po’ perché è rimasta aperta la via per l’Aldilà. Per la nostra gente è fuor di dubbio che lì vi sia uno di questi centri di cui dice Eliade. Lì il divino, l’umano e il demoniaco (con una particolare commistione di questi due ultimi livelli, se si pensa all’antropofagia) sono entrati in contatto e restano in contatto. Perciò, per me Li ‘mbóddre è un testo di alta rilevanza folclorica e conserva, rivestiti di forme cri

stiane, aspetti delle credenze primitive dei nostri antenati irpini. E ciò per un’altra riflessione legata alla teoria del centro. In ogni cultura si crede che presso il centro d’intersezione dei tre livelli cosmici, si manifesti qualcosa del Caos originario. Un qualcosa che, la palude ribollente delle nostre campagne testimonia molto efficacemente. Un altro elemento mescola forse contenuti sacrali (il rituale della mietitura, di popolazioni trasformatesi da cacciatori in coltivatori?) e, chissà?, storici (l’antropofagia delle grandi carestie intorno al Mille?). Lascio a voi l’approfondimento della questione. 

  foto di franco D'Addona    

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