Nel 1987 iniziavo a recuperare e scrivere la cultura orale del mio paese natale, Montecalvo Irpino. Ritenevo di poter risolvere l’operazione circoscrivendo la ricerca all’aspetto esclusivamente letterario di quanto gli antenati, per secoli, avevano ripreso dalla cultura ufficiale, prodotto o rielaborato autonomamente e sedimentato. In sostanza presumevo che tutta la questione si potesse risolvere semplicemente trascrivendo ii detti, le filastrocche, le maledizioni ecc.. Non trascorreva molto tempo, però, e m’accorgevo che la trascrizione in dialetto locale del materiale summenzionato, seppure fedele e con traduzione a fronte, non solo risultava riduttiva, rispetto ad un patrimonio orale che cominciavo ad intuire vasto e straordinario, ma non rendeva giustizia alla storia della gente che quegli strumenti di comunicazione arcaica aveva adoperato quotidianamente, e che cambiamenti epocali, già in atto da tempo nella società nazionale, stavano per cancellare per sempre.Diventavano fondamentali, quindi, una raccolta a più ampio raggio di tutto il materiale reperibile sul territorio, prima che scomparisse la generazione d’anziani che ne era portatrice, e l’introduzione di una visione antropologica di tutto l’insieme.

Rivolgevo allora la mia attenzione anche ai canti, di cui echeggiavano i campi, durante i faticosi lavori agricoli, e gli antri delle case nei freddi e fumosi mesi invernali. Non essendo io un etno-musicologo, dovevo limitare il raggio d’azione alla registrazione, trascrizione, traduzione, annotazione dei testi e alla classificazione per tipo dei tanti canti raccolti. La trascrizione delle note musicali delle melodie avrei dovuto affidarla in seguito a qualche volenteroso specialista del settore.Dal 1988 si era venuta insinuando in me la convinzione, che anche nella tradizione orale montecalvese potesse esservi traccia di qualche poema epico, ascoltato e appreso dai compaesani dalla viva voce dei cantastorie che, nei secoli passati, girovagavano per i paesi in occasione di fiere e feste, più raramente nei mercati settimanali. Da testimonianze raccolte, a Montecalvo i cantastorie erano passati sicuramente sino agli anni Trenta del ventesimo secolo.Nel 1989, Domenico Iorillo, 1910-1991, noto in paese come zi' Mingu Trancucciéddru, grande cantatore durante la trebbiatura del grano, nonostante gli acciacchi dell’età, nel fisico e nella voce, mi cantava tra diversi canti un frammento che, a un riscontro posteriore di qualche anno, sarebbe risultato far parte del poema da me agognato. Il 12 aprile 1990 la mia ostinazione era premiata. Avevo finalmente trovato quel che cercavo, anche se niente m’avesse fatto presagire che vi fosse. Felice Cristino, conosciuto come Filici Pannucciéddru, contadino, classe 1921, mi cantava la metà del poema Angelica di 107 quartine. Me n’affidava anche il testo, fotocopiato da un quadernetto di quattordici pagine, ricevuto in prestito in cambio di due polli, su cui una sua cognata, Mariantonia Fioravanti, classe 1928, anche lei contadina, l’aveva trascritto nel 1949, sotto dettatura di suo nonno, contadino e pastore analfabeta, Giuseppe Fioravanti, 1874-1970. Costui godeva fama di gran cantore e asseriva d’avere inventato lui stesso il poema, ispirandosi alla trama di un romanzo del ‘700 che, per quanto io abbia finora ricercato, non sono riuscito a riscontrare presso alcuna biblioteca. In seguito iniziavo la trascrizione, traduzione e interpretazione del testo nel tentativo di collocarlo idealmente nella tradizione popolare.

 

 

 

Angelo Siciliano

 

Angelica

 

 

Poema contadino ottocentesco in dialetto irpino di Montecalvo Irpino (AV) di 107 quartine

 

Trascritto e tradotto da Angelo Siciliano

 

Storia d’un ritrovamento

 


Poema contadino ottocentesco in dialetto irpino di Montecalvo Irpino (AV) di 107 quartine

Trascritto e tradotto da Angelo Siciliano

 

Li pparti di lu munnu l’aggiu camminàti,1
li pparti di Mircurija e di Gioia
e una cósa nunn’aggiu dumandàtu
si la donna è fidéle o ‘ngannatóre.

Tutti m’hannu rispuóst’a lu pparlà:
"La donna nunn’è fférma di paròla.
Mar’a cquéll’uomu che s’add’accasà,
la morte si la chjama óra pi’ óra!"

Lu muttu di l’antichi m’aggiu ‘mparàtu:2
"Giuvinòttu, chi fai l’amore
e nunn’amate donne si nun zit’amàtu
e mmancu ‘n ti la pigliànnu si nun ti vóle!"

Nu cusìgliu da mìju l’aspittàti
e qualche giòrnu davanti ti lu truóvi:
"Abbàda quel giorno chi t’accàsi,
ca quel giorno l’uomo nasc’e mmóre!"

Cari signori, ch’attorno mi stati,
sopr’a stu fattu na còpia ci vóle,
pigliati l’esempio del vecchio Vitóne,
3
li ccósi fatt’a ffòrza nun so’ bbóne!

Nu padre c’aveva na figlia car’amata,
4
custrénta la tinév’a lu suju córe,
pareva na rosa rossa spampanàta,
miràndu lu suo viso si ni cunzòla.

Nu giòrnu li fu ffatta la mmasciàta
e ssi la figlia mmarità la vóle.
E di la dóta nun zi n’ha pparlàtu,
mancu a lu liéttu ci vuónnu li llinzóla.

Stùzia di vècchja ammachinàta!5
La vècchja di la malizia nunn’è ssóla,
ci vaci mbriéstu pi la caudàra:
"L’aggia fa la lissìja si Dio vóle!

Sono ottu giorni ca nn’aggiu lavàtu,
pi ttiémpu nùvulu e nun cumpare sole.
Staséra l’aggia fàni la culata,
tu saji lu fastìdiju chi ci vóle."

Per tutto l’universo ho vagato,
compresi i pianeti Mercurio e Giove,
ma un interrogativo ancora mi perseguita,
se la donna per sua natura sia fedele o traditrice.

Tutti mi hanno risposto sentenziando:
"La donna non tiene fede alla parola data.
Poveretto colui che dovrà accasarsi,
non sa che la sua ora è già suonata!"

Un antico motto ho imparato:
"Giovanotto, che siete innamorato,
non amate donna se non siete ricambiato
e non ostinatevi a sposarla
se lei vi respinge!"

Un consiglio da me vi attendete
e un giorno forse ve lo darò:
"Badate il giorno in cui vi accaserete,
perché quel giorno l’uomo nasce e muore!"

Gentili signori, che mi ascoltate,
da questo fatto si tragga una morale,
prendete esempio dal vecchio Vitone,
le cose fatte per forza non sono buone!

Un padre aveva una figlia diletta,
la costringeva a vivere segregata,
pareva una rosa rossa spampanata,
mirando il suo viso se ne rallegrava.

Un giorno gli giunse la richiesta,
se fosse disposto a maritare la propria figlia.
Di dote neanche se ne parlò,
come se per il letto non servissero lenzuola.

Astuzia di una vecchia furba!
Ella non è sprovvista di malizia,
va a chiedere in prestito la caldaia:
"Dovrò fare la liscivia, con l’aiuto di Dio!

Sono otto giorni che non faccio il bucato,
a causa del tempo nuvolo e mancanza di sole.
Stasera metterò a bagno i panni,
sapete bene il lavoro che ci vuole."

1 Il cantore introduce le vicende narrate nel poema con un fatto puramente immaginario: il proprio viaggio nel cosmo compiuto a piedi, con l’assillo di dirimere il dubbio antico se la donna sia, per sua natura, più incline alla fedeltà o all’inganno. La parolaaggiu non è del dialetto montecalvese ma di quello arianese e di altri paesi irpini.
2 Questo detto non è stato riscontrato tra quelli raccolti a Montecalvo.
4 Un padre, di cui non è dichiarato il nome, sta tirando su una fanciulla, bella come una rosa rossa spampanata. È la sua figlia diletta, si chiama Angelica, e la cela ai potenziali pretendenti.
5 L’ambasciata, cioè la richiesta al padre di Angelica, è portata da una vecchia piena di malizia, una strega, cui ha fatto ricorso zio Francesco, sicuramente non giovane, per entrare con l’inganno nelle grazie della ragazza. Era in uso, nei paesi del Sud, la consuetudine di rivolgersi agli uomini d’una certa età coll’appellativo di zio, come forma di rispetto.
La vecchia si presenta con la scusa della richiesta di una caldaia in prestito, per poter preparare la liscivia, con acqua bollente e cenere, per fare il bucato.

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