Personalmente ho avuto già modo di recensire il libro di Mario Aucelli sul Corriere di Avellino il 22 agosto 2011. In esso rimarcavo l’importanza della fatica di Mario per ricostruire la storia civile del nostro paese, affinché la sua memoria non vada perduta, senza trascurare le comparazioni con quella nazionale.
Lui ha recuperato centinaia di documenti per scrivere dei fatti accaduti e nel procedere si è accorto che la mole di documenti acquisiti, pubblici e privati, non era sufficiente per scrivere la storia che aveva ipotizzato, perché esiste, parallelamente alla memoria documentale, una memoria non scritta, che non si può trascurare ed è “certificabile” solo dagli anziani dialettofoni del paese, vere e proprie “biblioteche” viventi. Infatti, la vita della collettività era ed in parte è ancora fatta di dialetto, usi, costumi, tradizioni, consuetudini, racconti di vita vissuta ecc., che costituiscono la nostra cultura orale, vale a dire tutto ciò che passa da bocca a orecchio ed è documentabile solo con una ricerca sul campo. Mario Aucelli, quindi, ha cominciato a raccogliere anche i ricordi degli anziani, le parole, i detti, i soprannomi, gli aneddoti, i fatti eclatanti accaduti, i mestieri scomparsi ecc. E si è accorto pure dell’importanza della scrittura dialettale, perché la traduzione in lingua, da sola, può anche travisare il senso e il significato dei “reperti” raccolti. Ha quindi combinato, con criterio omogeneo, le tre fonti: i documenti scritti, la memoria personale e quella collettiva. E le storie, i fatti, le persone e i personaggi che racconta, si saldano cammin facendo e ne risulta la ricostruzione di un mosaico, che, nel caso di questo primo libro, è il vissuto della nostra comunità durante il fascismo.
Quando l’amico Alfonso De Cristofaro mi contattava per annunciarmi la presentazione del libro di Mario, e mi chiedeva se potevo partecipare, gli rispondevo che mi sarebbe piaciuto immensamente ma purtroppo mi era impossibile per vari motivi. Tuttavia, non mi rassegnavo al fatto di non poter essere presente a quest’evento. Qualche giorno dopo mi balenava l’idea che la mia assenza, gestita in modo originale, grazie agli strumenti che offre l’elettronica, si sarebbe potuta tramutare in un qualcosa di più incisivo rispetto a una mia presenza, che poco o nulla avrebbero aggiunto a quanto avevo messo per iscritto in precedenza. Ecco, quindi, il mio proposito, che comunicavo ad Alfonso, e lui si dichiarava d’accordo con me, di far ascoltare all’uditorio, in anteprima per l’occasione, tre canti politici da me repertati a Montecalvo, che sintetizzano sommariamente circa 50 anni di lotta politica democratica in paese, che Mario ha toccato nella sua ricerca e che saranno il contenuto di libri futuri.
Le tre registrazioni dei canti politici montecalvesi
Per quest’occasione, tra i circa 200 canti, da me registrati nella ricerca sul campo a Montecalvo, ho scelto due canti comunisti e una registrazione di alcuni canti e filastrocche (strufètt) democristiani in sequenza.
I “pezzi” politici registrati in totale sono una ventina e va detto che rappresentano un mondo, quello di Montecalvo della seconda metà del Novecento, che, nell’attuale panorama mediatico e globalizzato, non esiste più. Un mondo in cui, sino agli anni Sessanta del Novecento, quando ancora non era sparita la civiltà contadina, la lotta politica in paese era spesso molto aspra. Si tratta di canti che si possono annoverare nel genere delle “canzóni cacciati”, canti pettegoli inventati sul conto di alcuni compaesani per questioni di amore o di corna. Non si sa com’era nell’Ottocento e nei secoli precedenti ma, nel Novecento, una caratteristica dell’ambiente paesano era quella di creare tali canti, veri e propri gossip, talvolta pretestuosi, altre volte addirittura per fatti inesistenti, e si tramandavano per decenni durante i lavori nei campi. E va detto che le persone, fatte oggetto di questo tipo di dileggio o ignominia, non potevano di certo andarne orgogliose. Si racconta che, anche tra i loro discendenti, persiste ancora qualche senso di rabbia o di vergogna repressa.
La gente del paese, come per tutti i paesi d’Italia, si distingueva in classi sociali: prima venivano i borghesi, detti signori, di solito benestanti, perché proprietari di terre e palazzi, poi i piccoli borghesi, rappresentati dal ceto impiegatizio, e dopo i bottegai, gli artigiani, i massari, i contadini e i braccianti.
Come nobili vi erano stati i Pignatelli, duchi di Montecalvo, ed erano andati via dopo la morte nel Palazzo ducale del capofamiglia, il duca Giuseppe Pignatelli, avvenuta nel 1917, e la vendita dei loro beni, anche per via giudiziaria, avvenuta nel 1922, anno dell’avvento del fascismo in Italia (Cfr. il mio art. “Maria Pignatelli di Montecalvo, la fede compagna di una vita”, uscito sul Corriere di Avellino il 4.09.2011).
Con la scelta di questi canti ritengo d’aver assolto alla “Par condicio”, sia a riguardo dei partiti politici, comunista, socialista e democristiano, che per le classi sociali rappresentate, borghese e contadina.
I tre canti attengono alla seconda metà del Novecento, mentre il libro di Mario Aucelli si chiude col 1946, anno cui si riferisce “Il canto comunista del 1946” di Felice Cristino (1921-2010), contadino, soprannome Pannucciéddru, che registrai nel 1996. Trattasi di un canto politico, pettegolo e dispettoso, come era d’uso in paese sino agli anni Settanta del Novecento, contro i fascisti, la monarchia, i signori, la guerra e i democristiani.
Negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, la lotta politica a Montecalvo era molto forte e, sino al 1960, il paese era una delle roccaforti rosse dell’Irpinia. Durante i comizi, sempre affollati di paesani, gli oratori arringavano la folla dal palco o dal balcone con assordanti altoparlanti, sparlando dell’avversario politico e arrivando talvolta alle ingiurie e alle offese personali. Quando due parenti, anche stretti, militavano in opposti schieramenti, i panni sporchi di famiglia spesso erano lavati in piazza. A volte era talmente aspra la lotta politica paesana, che gli esiti degli eventi politici nazionali passavano in secondo piano.
Durante le campagne elettorali, i comunisti allestivano il palco nello slargo di via Nicola Pappano, mentre i democristiani tenevano i comizi dal balcone di uno dei palazzi che affacciano su Piazza Monumento. Talvolta, alcune manifestazioni politiche si svolgevano nel palazzo dell’ECA, Ente Comunale Assistenza, costruito durante il fascismo, sul sito del convento di Santa Caterina d’Alessandria, abbattuto dopo il disastroso terremoto del 1930, che era nell’omonima via, detta pure via della Piazza di Sotto. L’edificio dell’ECA, destinato per anni a sala cinematografica, fu spianato dopo il terremoto del 1962 e sul suo sito fu allestito un grosso prefabbricato, adibito per anni ad ufficio della Posta e Telegrafo. Attualmente ne resta solo un’ampia e anonima spianata.
Terrachjàna, Pannucciéllu, più arcaicamente Pannucciéddru, l’Acciprèviti e Lu Prèviti spugliàtu sono soprannomi montecalvesi citati nel canto. È menzionato qualche esponente democristiano come Carlo Caccese e Antonio Lazazzera. Nu uaglióne di trent’anni è Ciccio Panzone, maestro socialista, sindaco in carica dal 1952 al 1960 e succeduto a Pietro Cristino, farmacista socialista, antifascista e primo sindaco democratico di Montecalvo, eletto nel 1946 con la lista frontista della Spiga di grano, per la quale erano alleati PCI e PSI.
Nel testo si fa riferimento pure al 2 giugno 1946, data in cui si andò alle urne per il Referendum Istituzionale. Gli italiani furono chiamati a scegliere tra
Negli anni, il trasformismo portava alcuni rossi a diventare democristiani e di alcuni di loro così si sparlava: “Si l’hannu magnàti li maccarùni!”, cioè si erano venduti per un pacco di pasta, che la DC e la Chiesa distribuivano come aiuti agli indigenti, per conto dell’ONARMO-POA, Pontificia Opera Assistenza.
Il primo sindaco democristiano fu Marcello De Cillis, eletto nel 1960 per soli quattro voti in più, rispetto alla lista avversaria.
Il canto comunista del 1989 è cantato dall’autore del testo, l’esponente comunista Fedele Schiavone (1932-2001), di origine contadina, soprannominato Krusciov, e lo registrai nel 1990.
È una parodia di quello del 1946, sia come melodia che come canto politico a dispetto, ma in esso vi è un aggiornamento dei fatti e delle persone, perché ci si avvia alla fine del secolo e sono passati più di 40 anni rispetto alla versione originale. Sono menzionati diversi esponenti democristiani locali, battuti alle elezioni da Felice Aucelli, sindaco di sinistra in carica dal 1982 al 1993.
La terza registrazione, con alcuni canti e filastrocche democristiani in sequenza, contiene testi inventati e cantati da Angela Pisani in Cavalletti (San Martino Valle Caudina, 1915 – Montecalvo, 2005), che registrai nel 1990. Si tratta di canti parodistici contro i comunisti, sull’aria di alcuni canti popolari, stornelli e canzonette. Vi è anche un Inno a De Gasperi.
I soprannomi Sciaré, Sciacò, ‘Ndijalèttu, Ciappètta, ‘Samuèla e Furciniéddru, e i nomi di Antonio Lazazzera, Carlo Caccese, Frattolillo, mastro Paolo, Antonio di Colomba, donna Chilina, donna Stifina, donna Raffaela Chiancone, signora Parrella e Pasqualina Samuela sono citati in questi testi.
Quel che accomuna il contenuto di queste tre registrazioni è lo sfottò dell’avversario, la fiducia nella vittoria del proprio partito e una certa dose di autoironia. Infatti, tutti e tre i cantatori si autocitano compiaciuti, un po’ per il proprio ardire nei confronti degli avversari e un po’, forse, per non farsi prendere troppo sul serio.
Nota - Per questione di tempi tecnici, alla presentazione del libro di Mario Aucelli si è scelto di proporre solo due delle tre registrazioni dei canti: il canto comunista di Felice Cristino e la registrazione con Angela Pisani in Cavalletti.
Questo testo, scritto per il Corriere, quotidiano dell’Irpinia, è pure nel sito www.angelosiciliano.com.
Angelo Siciliano
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