Dietro la Poesia: Conversazioni con Poeti Contemporanei.
Aldo Micillo – Grazie per la vostra disponibilità a questa chiacchierata. Devo dire che ho trovato molto coinvolgente il reading delle vostre poesie, prima quello di Marko e poi quello di Josip. Per cominciare potreste raccontarmi qualcosa della vostra vita… Magari può cominciare Marko, che appartiene alla minoranza di lingua slovena a Trieste e che può poi tradurre le parole (in sloveno) di Josip…
MARKO – Riguardo alle circostanze della mia nascita, dico che sono qui, in Campania, anche per rivisitare i luoghi dove sono nato, in Irpinia, dove i miei genitori erano stati mandati al confino, durante la seconda guerra mondiale, dal regime fascista. Così nel ‘43 sono venuto al mondo nel paese di Montecalvo Irpino.
Sono emozionato nel sapere che tra qualche giorno rivedrò i luoghi di cui mi raccontavano i miei. La gente li aveva ben accolti. è la storia che si ripete dei migranti, degli immigrati, dei profughi o, comunque, di chi si sposta e deve ricollocarsi, delle genti che vanno accolte.
Anche Josip ha vissuto le sue vicende personali a Sarajevo, dove è nato. Ora ha messo radici sul Carso triestino e vive vicino alla mia città. Di lui si può dire che è nato una seconda volta, che è rinato in una nuova lingua: lo Sloveno, mentre prima scriveva in Serbocroato.
Siamo qui anche per testimoniare che con la poesia si può offrire qualcosa a chi ha un cuore aperto, a chi sa cogliere queste voci umane in movimento. Mi sembra che succeda nel mondo anche al giorno d’oggi: sappiamo quanto le genti migrino, si spostino su questo piccolo globo. Io credo che certe cose sono universali: il bisogno di comunicare, trasmettere il proprio sentire, la parola, la poesia (in cui io e Josip crediamo), lo stare insieme, il disporsi alla gioia di incontrare i propri simili, l’incuriosirsi con interesse a quelle differenze che, a prima vista, possono risultare ostacoli di nazionalità, generazionali, di lingua, di cultura e che, in fondo, possono stimolare l’anima ad aprirsi, a tendere la mano…
A.M. – I tuoi genitori da dove venivano?
MARKO – I miei genitori erano di Trieste, ma di nazionalità slovena. L’Italia fascista non tollerava gli“alloglotti”: così definivano quelli che erano di lingua diversa da quella ufficiale. All’epoca, quindi, in quell’area c’era uno Stato contro un’identità culturale, contro una comunità diversa. Questa diversità, che può essere considerata un arricchimento, per una dittatura diventa sempre un qualcosa di pericoloso. In più, a quei tempi, il regime in Italia guardava all’Est come un terra di conquista, con ambizioni imperialistiche. Noi eravamo all’interno della frontiera italiana ma eravamo visti come un’etnia estranea, da cancellare. Mio padre cantava, si riuniva con amici con cui parlava in Sloveno, ed anche questo era un modo di contrastare il fascismo. Nel 1940 hanno inscenato il Secondo grande processo a Trieste davanti al Tribunale speciale per la difesa dello stato, contro un gran numero di Sloveni, già dalla prima ora antifascisti. Ma il processo voleva essere un atto premonitore per la guerra nei Balcani. Mio padre è stato condannato ed è stato designato dapprima alle Tremiti. Dopo un po’ venne trasferito in Irpinia dove lo raggiunse mia madre con mia sorella, nata a Trieste. Poi nel ‘45 siamo tornati a Trieste. Nel dopoguerra, mutato il clima politico, sono state ristrutturate le istituzioni, le scuole, le case editrici slovene, il teatro, sono riemersi gli scrittori e altri artisti che ricostituirono la cultura slovena nella città e nella fascia confinaria. Questo ha permesso alla mia generazione di sostenere una convivenza costruttiva a cavallo della frontiera. È un modo di contribuire anche alla costruzione di un’Europa polifonica, di culture che si scambiano, che sono curiose l’una delle altre, nel riconoscimento e nell’accettazione reciproci. Com’era ai tempi di Paestum: questa intervista si svolge vicino al sito archeologico della città greco-romana, che abbiamo visitato nel pomeriggio: anche queste terre hanno sempre visto gente che veniva da lontano, che si installava in questi luoghi fondendosi o soppiantando le popolazioni autoctone e poi, nei secoli a seguire, assorbiva, a sua volta, pacificamente o meno, altre popolazioni in movimento e veniva ancora trasformata. In tutto questo ciclico rimescolarsi di razze ed etnie negli stessi luoghi, poi si trova sempre modo di trasmettere l’esperienza di chi c’era precedentemente, di tramandare ai nuovi venuti un modo di stare al mondo e integrare tradizioni e nuove culture. Così si procede nella storia, quando tra la gente ci si arricchisce l’uno con l’altro. Idem per la letteratura…
A.M. – Hai usato due termini che mi hanno colpito: quando parlavi del fascismo hai detto che volevano “cancellare” la cultura slovena dal suolo italiano; adesso, invece hai parlato di avvicendamenti di popoli che “integrano” l’esperienza precedente, il nuovo che arriva “integra” l’esperienza di quelli che c’erano prima…
MARKO – Sì, ciò è vero storicamente, e vale anche per queste nuove migrazioni. A primo impatto possono portare un disturbo se non uno shock; ma poi dovremmo certamente rivedere i nostri riflessi conservativi, le nostre fobie, superarle ed entrare in contatto. Sono queste le questioni dei giorni nostri. E le vivo quotidianamente a Trieste, dove confluiscono tre mondi: slavo, romanzo e tedesco. A me piace incontrare queste diversità: faccio traduzioni anche perché credo che arricchiscano il mio vocabolario sloveno, perché ripensare, rielaborare le espressioni, i concetti esplicitati da un italiano o da un tedesco, per me sono occasioni da cogliere. E lo sono per chi è attivo e si impegna ad essere partecipe. Non è solo una questione di trarre da questo un profitto: si tratta di provare gioia, poiché io credo che da queste diversità venga anche amore. I corpi degli uomini, letterati compresi, a qualsiasi etnia appartengano, hanno una pelle che ha bisogno di contatto: se uno rimane in sé stesso non può vivere questa sensazione, ha bisogno che qualcuno lo tocchi ed anche di sentirsi sé stesso in relazione con gli altri. In questo senso incontrarsi fa bene… Evidentemente a ricorrere alle armi e alla violenza è sempre la stupidità più che l’ignoranza: e non la si spunta mai, riemerge sempre l’ottusità.
A.M. – La poesia ha un ruolo in questo? Può aiutare?
MARKO – Io credo che oggi ci siano molte manipolazioni, più o meno subliminali, nel campo del pubblico, che coinvolgono anche le istituzioni democratiche: siamo tutti più informati ma non sappiamo come e da chi, né ci è possibile verificare la veridicità di quanto apprendiamo e, in genere, abbocchiamo e lo prendiamo per corretto. In questo ognuno dovrebbe essere critico con se stesso, “restare vivo”. La circolazione del sangue deve scaturire dall’appartenenza alla vita: ognuno è tenuto a cercare di salvare tutto quanto ci circonda: l’ambiente umano, l’ambiente naturale. Vanno coltivati i rapporti nell’uno e nell’altro. La poesia apporta un suo contributo: si basa su un’”identità emozionale” (almeno è così per quella che facciamo Josip Osti e io), si fonda, banalmente detto, sulla “legatura del cuore”, che è il primo modo di avvicinarsi all’altro, è il modo di rimanere sé stessi e scoprire un’individualità diversa in chi ti è vicino. Questi sono i valori che propone la poesia: uscire dal personale, dall’egocentrismo, per incontrarsi con la gente. Appartiene alla dimensione femminile dell’uomo (abbiamo tutti e due generi, sia quello maschile che quello femminile dentro di noi). La poesia è vita.
A.M. – Quindi la poesia viene, per voi, da ”un altro lato”: dal lato femminile, o, come mi è sembrato quando ho letto alcune vostre poesie, dal bambino?
MARKO – Si: è essere disponibili, essere ingenui, lasciarsi trasportare, e poi conservare questa agilità, questa genuinità, questo Eros, questa vitalità, questa gioia di vivere: è questa la base di tutto, no? Con le parole si può anche giocare, con l’ironia si può mettere in discussione, si possono fare passi diversi da quello che è il dettato del quotidiano, cioè di essere sempre funzionali, sempre utili, sotto il terrore del tempo, delle scadenze. Una buona lettura è anche liberatoria. Rimanendo con un piede sulla terraferma, con quell’altro bisogna sempre cercare una nuvola o tentare qualcosa, un passo…
A.M. – Qual è la distanza tra “la parola” e “l’esperienza” e ciò che vivi, ciò che senti? Tu lavori con il linguaggio: può riuscire la parola ad esprimere l’esperienza, il sentire, il vissuto? O ne rimane, in qualche modo, sempre distante e trasforma in altro, “traduce” piuttosto che esprimere, quindi “tradisce”?
MARKO – Comporre una poesia, “un organismo” in parole è un atto creativo. Una poesia è sempre anche un dato di fatto: cioè costruisco, faccio nascere una realtà, un qualcosa di diverso da me, che forse mi supera, o di cui posso essere deluso o entusiasta. Vi posso intravedere delle cose che sono scaturite o dalla tradizione, orale o dotta, o dal subconscio o da qualche altra associazione, comunque ha una sua autonomia. La poesia non si può definire: si sa quello che non è. Quello che non è poesia è questo essere umano un po’ sopraffatto dalle cose che lo depersonalizzano. La poesia è sempre anche un coltivare qualcosa di fantasioso, di misterioso e la capacità di ascoltare questo, non essere sempre “attuale ed impegnato”. La parola in poesia dovrebbe essere legata, se me lo concedi, all’“intimità”. Dovrebbe aiutarci a mettere in disparte quanto ci travolge nel quotidiano.
A.M. – La poesia è sempre personale, intimistica?
MARKO – Sì: in partenza deve esserci questa persona con tutta la carne cruda, la pelle esposta alle sensazioni, una persona che poi reagisce, e scrive…
A.M. – Vorrei chiedere a Josip degli stessi argomenti. Se puoi aiutarmi a tradurre in Sloveno: se ho ben capito anche Josip ha attraversato conflitti sociali, etnici…
JOSIP – Siamo compagni di strada da lungo tempo io e Marko: siamo della stessa generazione, sebbene io sia molto più giovane nella poesia slovena di lui, poiché nei primi 25 anni mi sono espresso, ho scritto e mi sono affermato nel Serbocroato, e poi, per amore ed anche per qualche gene nel mio sangue, mi sono orientato a tradurre, a leggere, a creare letteratura nell’ambito sloveno. Quindi ho seguito il dettato del cuore e sono andato, alla fine degli anni ’80, prima che scoppiasse la guerra nella ex Jugoslavia, a vivere in Slovenia: per amore e per il fascino familiare della cultura slovena. Lì ho ripreso a scrivere e sono rinato in un’altra lingua ed anche in questa lingua ho scritto molti libri. Ormai ho scritto più libri in Sloveno che non nel periodo precedente in Serbocroato. Credo di poter dire di appartenere a due mondi…
MARKO – Josip è ormai radicato nella lingua, nella cultura e nella poesia slovene, e ciò si manifesta anche nel fatto che è uno dei traduttori nella letteratura slovena tra i più fecondi: ha tradotto 140 autori ed opere dal Serbocroato…
JOSIP – La prima traduzione dallo sloveno è stata una poesia di Marko, quando è stato mio ospite a Sarajevo, allorquando dirigevo le giornate poetiche di Sarajevo: era intorno al 1970… Ora siamo anche vicini di casa, sul Carso triestino, perché il confine è equidistante dalle nostre case: viviamo ad una ventina di chilometri di distanza. In tal modo ci frequentiamo e volentieri siamo insieme. Partecipiamo insieme agli eventi di poesia. Ora il buon vento ci ha portato qui, a questo reading in Magna Grecia…
Mia madre era croata di Sarajevo, anche mio padre è nato lì; mio nonno era di origine slovena, con un cognome italiano, proveniente dalle regioni dell’impero austroungarico. Quando la Bosnia, intorno al 1880, è diventata provincia dell’impero, vi si sono trasferite molte persone, tra cui mio nonno…
A.M. – Ci chiedono se vogliamo del vino…
MARKO – Un caffè per Josip e per me un bicchiere di vino secco… Un bianco va bene, grazie! …I vini sono quelli della regione?
A.M. – Il Fiano viene proprio dall’Irpinia…
MARKO – Anche nelle nostre regioni, nella zona carsica, ci sono dei buoni vini… Non avremmo fatto poesia se non ci fosse stato il vino! Considero il vino una delle “sostanze” primarie. Io abito in una micro-area del Carso dove si fa dell’ottimo vino: il Terrano (Teran), che viene dal vitigno chiamato “Refosco”. è protetto come denominazione perché c’è questa terra rossa..
A.M. – Mi interessa questa cosa che dici un po’ scherzando: che il vino aiuta, che è d’ispirazione…
MARKO – Anche in Slovenia si nota subito se i poeti o la gente che incontri provengono dalle regioni dove si coltiva la vite o se bevono grappa o birra. Hanno aperture mentali diverse! Josip si è trasferito sul Carso anche perché il Sud della Slovenia è una regione vinicola, di influenze più mediterranee! Poi c’è l’altra parte della Slovenia, che è più orientata verso il Nord: tende più al “gotico”, tende un po’ più a sentimenti depressivi. In questo senso, il vino è indice di qualcosa…
A.M. – Tu hai scritto anche una poesia: “Dionisiaca”. Dioniso era anche la divinità dell’ebbrezza, dell’irrazionale, tra il femminile e il maschile: tutte cose a cui tu hai anche accennato…
MARKO – Questa di cui parli è una poesia anche un po’ programmatica, nel senso che rinnego il dio che mi guarda da gran giudice dalla sua croce … Vorrei piuttosto più divinità. Una di queste certamente sarebbe Dioniso, dio che sapeva dare corpo ai propri sensi, sensualità, apertura all’irrazionale… Un’altra poesia in cui accenno al vino dice che gli antichi Illiri il vino se lo portavano nella tomba, ma io preferisco berlo già qui, ora!
A.M. – Bene, allora alla salute! Come si dice in sloveno?
JOSIP – Na zdravje!
A.M. – Vorrei chiedere a Josip di continuare quanto ci stava raccontando…
JOSIP – Come dicevo, io sono andato in Slovenia da Sarajevo alla fine degli anni ‘80. Questa cosa è avvenuta prima dell’assedio di Sarajevo e la ragione è stata quella dell’amore. Ho raggiunto Barbara, la mia seconda moglie. A lei era ispirata la mia opera “Barbara e il barbaro”. Ero molto legato a Sarajevo e non avrei mai pensato di andarmene. Kafka diceva: “Non occorre sellare il cavallo poiché non sai se arriverai fino alla porta del vicino”. Non mi sarei mai sognato di scrivere in un’altra lingua diversa da quella materna. Invece mi è successo come un miracolo: l’amore, che mi ha fatto abbandonare Sarajevo, sebbene abbia continuato a seguire la città aiutando la gente e facendo quel che potevo da lontano. L’amore mi ha portato a scrivere in un’altra lingua. Adesso ho alle spalle una copiosa quantità di cose scritte in sloveno: poesia ma anche saggistica, prosa…
A.M. – Che cosa hai scritto in prosa?
JOSIP – Ho scritto racconti, se così posso dire, romanzi brevi, che si fondano su materiali mnemonici, anche con interventi saggistici e di poesia, ben omologati, che hanno avuto un certo riconoscimento. Uno dei miei libri più recenti ha titolo “Il nero che ha divorato tutti gli altri colori” e tratta dell’esperienza di una persona, grande poeta di Sarajevo, con cui avevo rapporti personali, intimi. è anche una metafora dell’esistenza che tenta di sopprimere ed annientare i colori della vita, ma la poesia, la scrittura possono conservare questi aneliti di gioia, di vita: per questo ho messo tutto quanto per iscritto. Sono pagine di diversa calibratura ma che sono soprattutto espressione di questa voglia di creare, di fare, di operare, e con tratti anche di un certo spirito…
E poi, cosa che mi accomuna a Marko, per me è importante cantare l’Eros, l’Amore; quelle cose che, espresse con spontanea intimità, possono sembrare quasi troppo trasgressive…
MARKO – … Un suo verso dice: “l’amore mi ha fatto poeta”! Una delle sue ultime raccolte, tradotta in italiano (ha avuto anche un premio in Italia un paio di anni fa), s’intitola “Tutti gli amori sono straordinari”. Suona un po’ come uno slogan, ma è un principio di fondo della sua poetica, e lo è, in qualche modo, anche della mia, sebbene per Josip il tema dell’Amore sia più centrale e, negli ultimi decenni, vi si sia dedicato interamente. Nella sua poesia degli anni iniziali si è occupato anche di tematiche universali, come le questioni etiche e morali, le questioni della sopraffazione, delle prevaricazioni. Scriveva del boia e di quello che mette la testa sul ceppo: e questo avveniva tantissimo tempo prima che succedessero le cose a Sarajevo. Inoltre, ha scritto anche un libro che è stato premiato e tradotto in tante lingue: “Il libro dei morti di Sarajevo”.
A.M. – Per i Greci vi erano tre tipi di amore: agape, eros e filia…
JOSIP – Ognuno di questi approcci per me è l’Amore, sebbene l’immagine con la quale sintetizzerei il senso che ha per me è: essere in due sotto le lenzuola!
A.M. – Quindi è l’amore per l’altro sesso? È l’amore che porta a “creare”? è l’amore che passa attraverso la carne? È l’amore passionale, erotico?
JOSIP – è l’”avvicinarsi” il più possibile. è entrare in un’altra persona. Rinnegare se stessi per l’altra persona, per una donna, per qualcosa. E ciò vale per ognuno dei tre aspetti che tu hai citato prima…
MARKO – Josip ha scritto un bellissimo libro, romanzo a mosaico che s’intitola “Davanti allo specchio”: è un libro dedicato alla ricostruzione delle sue memorie erotiche, dei suoi innamoramenti dalla nascita in poi. Riporta ogni “perversità” amorosa: dall’amore per la nonna all’amore per una ragazzina a quattro anni, l’amore per la zia, per la vicina di casa, di quando lui andava a scuola (la vicina con cui ha scoperto la sessualità), ecc. Scrive cose turche! È entusiasmante questo libro. Avrà circa 300 pagine intessute di queste esperienze, di questi vissuti dei tempi di guerra e di altri tempi. Parla anche di sua madre: Josip ha avuto due madri, poiché la sua mamma era stata rinchiusa in prigione nei tardi anni ’40, non so per cosa (forse era una dissidente) e a lui non lo si diceva, ed è subentrata una zia, che è morta di recente e che lo ha cresciuto. Lui si è figurato per lungo tempo questa zia come madre e l’affetto per lei è durato per sempre. Tutti questi amori erano passionali, ed alcuni anche carnali, fisici…
A.M. – Se per Josip è così importante parlare dell’amore, significa che è “innamorato”? Che è in uno stato come di “innamorato”? Cioè in uno stato di predisposizione, di apertura, di andare verso, di accogliere tra le braccia, di ricettività come quello di un “innamorato”?
JOSIP – Sì, mi sento costantemente come un innamorato…
A.M. – È una visione dell’uomo, questa?
JOSIP – Non so se conosci Livio Berruti: è stato medaglia d’oro nei 200 metri alle olimpiadi di Roma del 1960. Io ci sono andato con mio padre. Mio padre si chiamava Narciso, e questo era anche il nome di mio nonno, ed anche io avrei dovuto chiamarmi così… Comunque quella era stata la mia prima volta in Italia: con mio padre eravamo andati a vedere le olimpiadi e avevo 15 anni. Quando in un caffè di Roma ho riconosciuto Berruti, ho fatto una corsa per arrivare prima degli altri a poter chiedergli l’autografo. Sono stato il primo! Potrei dire, scherzando, che mi sono affermato come atleta prima che in poesia: come nell’antica Grecia! Avevo una passione, ero “innamorato”. Ciò che caratterizza l’uomo è l’”emozionalità”, il suo lato emotivo. Ho scritto tanti libri e lo faccio ancora, ma in primo luogo sono un lettore assiduo. Mi immergo nella lettura con trasporto. Credo che ogni poeta, ogni autore in tutta la vita scriva un solo libro: ogni tanto, tra un testo e l’altro, mette i puntini sospensivi, poi riprende, ma si tratta sempre della stessa opera. Un solo libro in cui esprime sé stesso, la sua passionalità. Similmente, potrei dire anche che ogni libro che ho letto è stato “una mia amante con cui vado a letto”…
MARKO – …Nella traduzione in italiano si perde un po’ il senso di questa frase: in Sloveno “libro” è un sostantivo femminile e ciò rende meglio il gioco di parole…
JOSIP – …Quando leggo a letto posso anche dormire con il libro, con “la mia amante”. Ogni libro è come portare a realizzazione una vita, un amore. Ogni lettura, ogni scrittura è quasi come giungere ad un amplesso. Si va da un amplesso all’altro ed è come vivere un amore. Leggere o scrivere un libro è come comporre un amore, vivere un amore…
A.M. – Josip viene da una lingua diversa da quella sua attuale e Marko vive in Italia ed usa lo sloveno: che cosa significa scrivere in questa o in quella lingua? Ogni lingua è un cuore, un modo di pensare, un modo di essere, un modo di emozionarsi diverso?
JOSIP – Io non ho mai scritto in due lingue ma solo in una prima e nell’altra poi. Anche oggi scrivo in sloveno e poi traduco in serbocroato, e lì mi accorgo di differenze e possibilità espressive diverse. Anche per quanto riguarda il tema dell’Eros e di quanto vi gravita intorno: come è successo prima, un sostantivo può essere in una lingua femminile e in un’altra maschile, e queste differenze di genere, queste diverse possibilità di espressione, ad esempio, innescano perversità…
MARKO – Per quanto mi riguarda, almeno nella poesia, cerco di risalire quanto più alla lingua dell’infanzia, a ciò che può essere legato non alla scrittura, all’ortografia o alla grammatica, ma alla voce che ho udito, che ho sentito, e quindi ai sensi deposti e stratificati nel bambino che recepisce. La poesia dovrebbe restituire alla lingua il linguaggio. La sonorità della lingua, l’aspetto auditivo dovrebbero rievocare la percezione della fase della prima infanzia, quando apprendiamo le cose del mondo e della vita, e la stessa denominazione delle cose. Ancora oggi ho difficoltà in italiano, che è la lingua della maggioranza nel mio habitat, ad orientarmi con la denominazione delle parti anatomiche, degli organi, poiché l’ho sentita sempre dai miei familiari in Sloveno. Ci sono suoni, nomi, che sono parte di quello che è Marko Kravos: quelli delle erbe, delle semenze, del microcosmo primario, del corpo, appunto, ecc. è la prima lingua! è la lingua del bambino, è una lingua “primitiva”…
A.M. – Per Josip è differente? Per lui la prima lingua è il serbocroato: lui si è reinventato, ha avuto una seconda vita, come ha detto prima…
MARKO – Sì, senz’altro, questo è innegabile. Le sue due lingue possono essere una accanto all’altra. Si dovrebbero fare delle analisi per comprendere in fondo come la sua poesia si realizza nel secondo caso. Come riconosce le cose del quotidiano. Tieni presente che Josip si è subito orientato verso forme di poesia brevi, come l’haiku giapponese, che ha una struttura di tre versi e rappresenta un’espressione di poesia semplice e sincera, basata sulla durata del suono della parola. E questo anche perché lo Sloveno è una lingua concentrata, che va all’essenziale. Si dovrebbe fare una ricerca sulla sua opera…
A.M. – La poesia di Josip è cambiata con il cambio della lingua?
JOSIP – È logico che vi sia qualche differenza, però io non la sento perché prevale la coerenza con lo sviluppo dei miei argomenti interni, con i temi relativi all’Amore…
MARKO – Io ho usato prima il vocabolo “primitivo”: forse nel caso di Josip si dovrebbe dire piuttosto “elementare”. Le sue espressioni non sono mai intellettuali ma piuttosto “elementari”.
A.M. – Ho letto che tu, Marko, fai anche degli studi sulle forme dialettali, sia in italiano che in sloveno…
MARKO – Non proprio degli studi, piuttosto delle traduzioni. Uno degli apporti maggiori alla lingua italiana contemporanea proviene dalla vitalità e dalla genuinità della poesia nelle varie espressioni italiane, in qualche modo anche più coinvolgenti che la poesia in italiano ortodosso letterario stesso. Mi ha sempre affascinato tradurre dal dialetto e così tentare di comprendere questo più a fondo. In dialetto le voci sono più legate al territorio, alla tradizione, al retaggio culturale. E comunque l’uso di un linguaggio dialettale è anche segno di un autore che non ha tanta ambizione di diventare globale, ma di essere più autentico, più coerente con sé stesso, potrei dire: più vero. Ho tradotto vari poeti, anche dal napoletano, ho tradotto Franco Loi dal milanese pasticciato con il genovese, ho tradotto autori nostri locali, istriani ed italiani: istro-veneti, triestini, friulani, ecc. Queste cose non solo mi divertono ma sono per me importanti, poiché tento di valorizzare voci che sono veramente guidate dall’intimità alla sincerità. Di solito un poeta che si esprime in queste piccole lingue ha voglia di rievocare una lingua materna, il “primitivo” di cui ho parlato prima. E così, allo stesso tempo, si riconosce in una cerchia più ristretta dell’umanità. Questo lo si riscontra anche sul versante italiano della frontiera con la Slovenia, dove vivono gli Sloveni in Italia, su dal confine con l’Austria fino a giù, fin dove si incontrano le parlate istriane: anche lì ci sono diversi autori che si esprimono in dialetto, anche perché non avevano, tra le due guerre, scuole slovene e che quindi sono stati privati dell’educazione necessaria per esprimersi, diciamo così, con una lingua dotta, scolastica. Però hanno un’altra genuinità… Un caso particolare e di cui mi sono occupato recentemente, è quello di uno scrittore resiano: Renato Quaglia. Il dialetto resiano è una forma di espressione ermetica, difficilissima. è parlato nella Val Resia, una valle delle Alpi Giulie al confine con la Slovenia. Renato Quaglia è un personaggio dal carisma non indifferente. Ha studiato in varie facoltà. Prima era sacerdote, poi si è spretato ed ora le relazioni con la Chiesa non sembrano ideali. Si richiama ad una spiritualità della propria vallata più ancestrale, pagana.
Ci sono anche altri poeti, come Silvana Paletti, che vengono da Val Resia. Anche nell’area veneta ci sono autori interessanti: lì si sente la presenza di Venezia, della loro amministrazione, sotto cui hanno conservato un’autonomia quasi completa e che si stanno rivalorizzando dopo quasi un secolo di letargo forzato, dettato da uno Stato insofferente verso le differenze etniche. Fino a una trentina di anni fa erano censurati poiché erano visti come estranei, come gente che poteva mettere bastoni tra le ruote all’Italia e alle istituzioni, ma anche contro il patto Atlantico, poiché in quelle terre c’erano i missili della Nato puntati verso Est, oltre la cortina di ferro.
Ma per tornare alla poesia e a Renato Quaglia, io sono stato testimone, a casa mia a Trieste, di quanto ti racconto: mi ha detto: “hai un foglio di carta?”. Aveva all’orecchio una poesiola e l’ha trascritta lì. Dieci giorni più tardi, sei o sette donne anziane a Resia, avevano già appreso i versi che Quaglia aveva scritto sul foglietto e li hanno cantati su un motivo tradizionale adattato, alla sagra del paese del 15 agosto. Il paese è Stolvizza, una frazione del Comune di Resia, di cui il poeta è originario. Il dialetto sloveno della Val Resia è stato studiato specialmente dai linguisti russi e polacchi, poiché quella comunità è l’estrema frangia del mondo slavo. Dal VI secolo vi si stanziarono popolazioni slave, che rimasero isolate, conservando le proprie tradizioni fino ai tempi più recenti. Nelle vallate recondite, come quella di Val Resia, le parlate si sono conservate in modo più “primitivo”, tale da poter, tramite loro, risalire addirittura al Paleoslavo. Da loro l’evoluzione è proceduta a piccolissimi passi ed hanno ibernato la tradizione di tempi molto antichi anche nel campo della musica, delle danze, della spiritualità. Di quest’ultima ne discutevo con Renato Quaglia, nell’operazione di traduzione delle sue poesie sia in sloveno letterario che in italiano. Ci siamo conosciuti e siamo amici dagli anni ‘70: è gente solitaria ma vuole vivere insieme con gli altri, non sono eremiti. Gli ho detto: “hai lasciato, nella trasposizione in italiano, questa denominazione del vento…”, poiché nella cultura resiana, come per il greco antico, ogni vento, ogni corso d’acqua, ogni montagna, ha una sua divinità, un proprio spirito: ci sono quindi appellativi che riportano quest’anima delle cose, degli esseri in resiano e che sono poi riproponibili anche in sloveno, però in italiano diventano tutta un’altra cosa! “Si, hai ragione tu” mi ha risposto. In effetti è un modo di vedere panteistico: ogni presenza naturale diventa una divinità. Io traduco la sua poesia, poi esce fuori che le due versioni non combaciano, ne risulta qualcosa di diverso. E lui: “Fai come vuoi tu… O riprendi un po’ di questo e un po’ di quello…”. “Ma sono cose caratterizzanti originali”, gli rispondo. Poi cambia anche in sloveno e così diventano due versioni della poesia originaria. Io sono diventato matto, puoi immaginarti! Eppure, è come nei canti popolari: ognuno può adattare un po’ il testo originario secondo ciò che sente, con personali piccole variazioni che si confanno allo stato d’animo dell’interprete, ciò che è importante è restare nell’emozione! Nella tradizione la stesura scritta non è fissa: deve sempre trovare riferimento all’uomo che la proferisce…
A.M. – Quello di cui hai parlato è un’espressione poetica che viene da una tradizione specifica, mentre mi sembra che il vostro modo di fare poesia sia più slegato da un luogo preciso. La lingua e il modo di usarla si palesano come due dei vincoli che radicano o meno, in un posto…
MARKO – Sì, è così: Renato Quaglia, tra l’altro, è anche un uomo che ha viaggiato molto, ha vissuto in Svizzera, è stato in Belgio, altrove in Italia… Comunque, sente che il mondo di Val Resia sia in piccolo un concentrato dell’universo umano, dell’ambiente naturale.
A.M. – è un po’ il contrario della globalizzazione: lui ha preferito ritirarsi in un “localismo” e, invece di aprirsi ed “inglobare”, trova l’universo nel particolare…
MARKO – Sì, è l’inverso della globalizzazione… Io credo che questo sia un percorso che dovremmo fare un po’ tutti. Ripiegarsi sulle minime dimensioni dove la realtà, ma anche la verità, sono verificabili: altrimenti rimaniamo su Internet dove ogni cosa può creare realtà, dove troviamo cose che non sono verificabili, e magari sono volutamente manipolabili, per diventare non-verità.
(Marko Kravos e Josip Oasti a passeggio in Corso Umberto a Montecalvo Irpino, paese natale di Marko)
A.M. – E poi sono cose che valgono per tutti e quindi non accontentano veramente nessuno…
MARKO – …Consentono a pochi di manipolare il pensiero della gente…
A.M. – Voi usate lo sloveno per scrivere: è vero che lo sloveno è “la lingua dell’amore” poiché, oltre al singolare e al plurale, ha la forma del duale? Se è così, sarà sicuramente ideale per Josip a cui piace parlare dell’Amore…
MARKO – Sì, senz’altro: ci teniamo a conservare la forma del duale. Per ragioni di economia a volte tra i giovani si tende a tralasciarlo, ma con essa la lingua è più viva, ha più possibilità di espressione. Ci sono anche altre specificità: per esempio in sloveno i verbi hanno certe coniugazioni per cui possono esprimere molto di più che in altre lingue. Ma il duale è l’ideale per i poeti d’amore, rappresenta una potenzialità in più…
JOSIP – In generale nelle altre lingue si intravede l’equivoco di parlare di un amore un po’ “diffuso”. Quando invece parli in sloveno con una donna o di una donna, si comprende subito che si riferisce a questo rapporto sentimentale, al legame con una persona specifica e non ad un’altra. La differenza è quella tra un rapporto a due ed un rapporto collettivo, aperto…
MARKO – nel suo libro “Davanti allo Specchio”, Josip avrebbe potuto usare anche il plurale. è bene che si abbia sia l’una sia l’altra possibilità: circostanze e gusti permettendo…
Da: https://potlatch.it/scritture/interviste/aldo-micillo-dialogo-marko-kravos-josip-osti/
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