Palazzo ducale

Ma anche per il Castello di Corsano, per la chiesa di San Gaetano Thiene, per il Casino di Stiscia e per ciò che potrebbe diventare  il “Parco Architettonico Rurale alla Malvizza”.

Fatti e antefatti.

È certamente meritorio che, dopo oltre quaranta anni di totale abbandono, le sinergie pubbliche abbiano deciso di allentare i cordoni della borsa, per elargire i fondi necessari e consentire di salvare, consolidare e ripristinare quanto rimane del castello di Montecalvo Irpino, su cui era il Palazzo ducale, ultima residenza dei duchi Pignatelli. Ciò che è rimasto di questa struttura

medievale e dei rimaneggiamenti successivi, probabilmente lo si deve a chi progettò i muri inclinati a mo’ di contrafforte, contro cui nemici umani e naturali, come terremoti ed agenti atmosferici, si sono accaniti per secoli, senza averne ragione. Un po’ come è successo per l’Ospedale di Santa Caterina d’Alessandria, in Via Lungara Fossi, che resiste ostinatamente alle ingiurie del tempo, anche se quando piove molto qualche sasso si stacca e cade giù. Del castello ci sono pervenuti i locali seminterrati, mentre degli edifici superiori restano qualche brandello di muro diroccato e un’ampia spianata, fruibile come belvedere sugli ampi panorami circostanti, o per estemporanei spettacoli estivi. Nel progetto di recupero sono previsti la ricostruzione degli edifici superiori, dov’era il Palazzo ducale, e del campanile di Santa Maria, di cui rimane a terra una campana.

Nulla si dice dei tunnel che, secondo antichi racconti, partivano dagli scantinati del castello come potenziali vie di fuga, in caso d’attacco da parte del nemico. Antonio Garofaniello, Caròfinu, verso metà Novecento, raccontava che i tunnel dovevano essere tre: il primo portava verso il castello di Corsano, il secondo verso la Pescara e il terzo, passando per la cantina della famiglia Pirrotti e scendendo per la contrada della fontana della Monica, per poi risalire, sboccava nei pressi della fontana della Terra. Diceva pure che questo terzo tunnel era stato aperto e poi ostruito in Via Lungara Fossi, proprio in corrispondenza della cantina Pirrotti, con la costruzione del muro di contenimento del terrapieno retrostante il palazzo dell’Ente Rosa Cristino. Se, dopo il ripristino della Collegiata di Santa Maria e della chiesa rurale di San Nicola a Corsano, si vanno elargendo fondi per il recupero del castello, delle case e dei palazzi del centro storico, di cui era stata deliberatamente decretata la morte dopo il terremoto del 1962, per il resto, come una volta dicevano i giocatori incalliti, il piatto piange. 

E piange per il Trappeto, per il Castello di Corsano, per la chiesa di San Gaetano Thiene, per il Casino di Stiscia e per ciò che potrebbe diventare il “Parco Architettonico Rurale della Malvizza”. Forse non è già troppo tardi, per il loro recupero, come alcuni pessimisticamente ritengono. E la campana non è ancora suonata a morto. Tanto c’è da fare, si può fare, si deve fare! Certo, ci vuole coraggio e soprattutto un’inversione di rotta, rispetto alle politiche dilatorie ed accidiose del passato. Ma quando si è fatto poco o nulla per il recupero del settore edilizio storico, che potrebbe avere una ricaduta non trascurabile sia per l’immagine che per la realtà economica locale, se suffragata da altre iniziative, cominciare a riempire un’assenza di scelte politiche, non è mai tardi. Non è mai troppo tardi! Qualcosa si deve pur fare per Montecalvo, sia come paese che come paesaggio rurale. Non si può pensare che siano gli altri a fare. Quando quegli altri, in realtà non esistono, o si astengono dall’operare. Insomma, bisognerebbe darsi le mani di torno, o meglio cominciare a sporcarsi le mani. Certo, in un ambiente così, la burocrazia e la gente non sono d’aiuto. Perché la burocrazia privilegia lo status quo, si dimostra ostruzionistica, mette i paletti tra le ruote. La gente non dà importanza a queste cose. Ma compito dei politici, se la politica è una missione, o almeno una funzione di servizio, come dovrebbe sempre essere, è “fare le cose”. E farle bene. Sicuramente applicando le leggi, non facendosi imbrigliare dalla filosofia che è meglio non fare, per non dover sfidare poi polemiche pretestuose e avvelenarsi l’esistenza. E in ogni caso è sempre meglio essere ricordati per aver fatto qualcosa di utile per la gente e le generazioni future, anziché come nullafacenti che ci si è limitati a gestire l’ordinaria amministrazione. E compito della politica è stimolare i privati fornendogli gli input giusti, affinché si avviino iniziative concrete e proposte progettuali. E quindi anche i privati dovrebbero svegliarsi, pretendere che certi interventi siano fatti, e cominciare a fare in proprio ciò che è di propria competenza, se si desidera che i figli non siano sempre costretti ad emigrare. E anche i giovani devono attivarsi, essere intraprendenti, cogliere le nuove opportunità, organizzarsi con cooperative sul territorio, per le attività agroturistiche e la valorizzazione dei prodotti tipici, guardando a quanto di buono si va facendo nel resto dell’Irpina e in altre regioni. E non sperare di ricevere sempre dagli altri “l’uóv’ammunnàt’e bbuónu”, le cose già belle e fatte. Io, che non risiedo a Montecalvo da lungo tempo, raccolgo spesso echi di ciò che si va facendo in altre parti dell’Irpinia, per recuperare, ripristinare, rinnovare, rivitalizzare, conservare e tramandare. In questo modo si creano anche le premesse per produrre ricchezza. E si sa quale importanza vitale ha per i giovani la possibilità di avere un reddito certo sul proprio territorio. Di alcuni paesi conservo ricordi personali.

Casa in Via Angelo Cammisa - Trappeto

Trappeto

Nel 1983 accompagnavo mia moglie a Sant’Angelo dei Lombardi, dov’era stata nominata commissario d’esami per ragionieri, e ne approfittavo per dipingere sul posto la cattedrale puntellata da un’infinità di travi. In seguito essa sarebbe stata splendidamente recuperata e restituita al culto nella sua integrità ripristinata. Mentre la disegnavo, mi si affacciava un pensiero malizioso: a Montecalvo, una chiesa così malconcia, non ci avrebbero pensato su due volte a cancellarla per sempre. Era anche evidente quanto, per la gente e gli amministratori di quel comune, dopo il terremoto del 1980, fosse prioritario ricostruire anche il centro storico com’era prima del sisma. Osservavo muratori al lavoro fasciare con grate d’acciaio e gettate di cemento i muri risparmiati. Ricostruivano così le abitazioni. Più o meno com’erano prima del disastro.

Ariano Irpino, dopo i terremoti, ha sempre dato la priorità al recupero degli edifici storici e poi anche alle case della parte vecchia della città.

Casalbore si è rifatto il look ed è piacevole visitarne il centro storico.

In tanti altri comuni dell’Irpinia s’istituiscono musei, si salvano casali, taverne e masserie. S’inventano parchi naturali. S’incentivano le imprese.

A Montecalvo sono successe cose incredibili nei decenni passati. E avrebbero dovuto indignare la gente e far levare voci di protesta da parte dei cittadini istruiti e colti, che pure non mancavano. E invece, il silenzio! Perché alla gente bastava sistemare le proprie cose, la propria casetta, e quel patrimonio di edifici, depositario della storia comune e della memoria collettiva, poteva essere anche spianato e fatto rotolare nella discarica del Fosso Palumbo. Come se la cosa non riguardasse nessuno. Insomma, si è lasciato fare in ossequio ad una regola malsana: prima di tutto l’interesse particolare in luogo di quello generale. Colposamente si è cancellata l’identità del paese, disseminando la lunga e diseguale collina di disordinati e anonimi nuclei abitativi, perché ha imperato l’incuria collettiva. Si è proceduto, come se niente fosse, ad abbattere alcuni edifici, fondamentali per l’immagine, il decoro e la storia del paese, che i terremoti avevano in ogni modo risparmiato. Si abbattevano il campanile della Collegiata di Santa Maria, il seicentesco convento dei francescani, con l’altare barocco e il soffitto affrescato, mezzo Palazzo Peluso, mezzo casino di Stiscia alla Marinella, il soffitto della chiesa di San Bartolomeo con gli affreschi di Nicola Auciello. Mi risuonano ancora nelle orecchie i lamenti di Giovanni, figlio di Nicola, che fu pittore e fotografo, di cui è andato perduto anche il patrimonio di foto e lastre fotografiche. Addirittura si svuotava la Collegiata di Santa Maria. Se ne disperdeva l’arredo, di valore non trascurabile, e si aveva l’impudenza di farla sconsacrare, per renderla vuoto sarcofago di memoria. Perché nella fantasia illuminata e lungimirante di qualcuno, quello era il posto ideale per collocarvi la biblioteca comunale. Insomma i buoni propositi, se non si combinano con un interesse personale tangibile, non si mettono in pratica, o si rinviano sine die. Quelli cattivi, invece, non si aspetta tempo ad attuarli. In questo paese, si potrebbe dire che nel Novecento, terremoti compresi, è passato “Attila”, nelle vesti di spianatore d’edifici e “resettatore” di memorie. Molto era stato distrutto dopo il terremoto del 1930. Benedetto l’arrivo di nu frustiéru, il parroco don Teodoro Rapuano, che ha suonato la sveglia e che, tra infinite difficoltà, sta facendo in modo che in questo paese vi sia davvero un’inversione di rotta, rispetto a quanto finora si è fatto. Anzi, non si è fatto! Comunque tanto si potrebbe fare, si diceva. Bisognerebbe rimboccarsi le maniche, e avere il coraggio di sfidare l’inevitabile incomprensione della gente e la burocrazia. E tanto potrebbero fare i tecnici del paese, i liberi professionisti dell’edilizia, che non hanno neppure un’associazione professionale locale, elaborando progetti di recupero edilizio e sottoponendoli all’amministrazione pubblica, che si attivi affinché siano approvati e finanziati.

Angelo Siciliano- Cattedrale di S.Angelo dei Lombardi vista dal castello- Pastello-1983

Angelo Siciliano- Cattedrale di S.Angelo dei Lombardi facciata - Pastello-1983

 

Palazzo Peluso

 

Via Lungara Fossi - Resti dell'ospedale di S.Caterina

 

 Il Trappeto.

 Abbandonato a se stesso dal 1962, il Trappeto sta sgarrupànnu da tutte le parti. Ogni stagione piovosa sfonda altri tetti, provoca nuovi crolli, cancella altre case. Altre storie di famiglie e ricordi di vita vissuta spariscono per sempre. E circolano voci che si provvede a smontare i portali e li si fa sparire. Forse, furti su commissione. Certamente queste case, le cui perizie furono utilizzate per ricostruire altrove i nuovi alloggi, non sono “I Sassi di Matera”, dichiarati dall’Unesco “Patrimonio dell’umanità”. Anche lì la gente era stata trasferita altrove, in nuovi alloggi popolari costruiti appositamente. Da qualche anno, con gli incentivi del comune e dei fondi sociali europei, la gente sta ritornando. Ripristina le vecchie case e riprende ad abitarle. Lì non si è atteso che tutti i tetti collassassero. E vi si organizzano mostre d’arte internazionali, e arrivano i turisti. Matera non è al Nord. È Sud più profondo del nostro. E devo aggiungere che la Lucania l’ho sempre ammirata. E l’ho percepita un po’ come terra mia, per un fatto culturale, per l’orgoglio della sua gente, che attraverso i propri rappresentanti ha saputo far sentire spesso la sua voce, dando visibilità ai suoi problemi. Lì ritrovavo ciò che da noi si distruggeva, come se fosse passato di moda. Come si getta un abito vecchio. Idealmente lì mi rifugiavo, quando si faceva pressante la nostalgia, perché la storia di quei luoghi, capace talvolta di attirare l’attenzione nazionale e internazionale, mi pareva che “vendicasse” un po’ anche la nostra, per molti aspetti simile a quella lucana, ma sempre silenziosa, ossequiosa, capace solo di andare a braccetto o a rimorchio di politiche locali indolenti e clientelari, fini a se stesse. Dunque, il Trappeto. Il nostro secolare quartiere trogloditico, simbolo di vita simbiotica tra umani e animali, si sta accartocciando su se stesso. E si pensa che è colpa delle tante grotte scavate nel tufo, che ne minano la stabilità, e poi dell’acqua piovana che s’infiltra e permea il tutto, perché non è più canalizzata. Come se l’azione umana, o la sua latitanza, non c’entrassero. Ogni casa aveva o ha almeno una grotta. E l’interrogativo è se qualcuno che può, o che deve, si sia mai posto il problema delle conseguenze di quest’abbandono e dei crolli conseguenti. E se gli è passato mai per capo che i crolli potrebbero interessare, in un futuro non lontano, anche tutte le case di Corso Umberto I, come sta già avvenendo, e la stessa via, e quella parte meridionale del colle su cui poggia il Castello. Volere ipotizzare una conservazione complessiva del Trappeto, nella situazione disastrata in cui si trova, è ragionevolmente impensabile. Ma per la sua parte occidentale, che da Via Dietro Carmine scende e prosegue per Via Angelo Cammisa, fino al fontanino, che ora non butta più acqua, sulle abitazioni abbandonate, ancora in discreto stato, si farebbe in tempo ad intervenire. Si deve procedere innanzitutto a rifare i tetti, a controllare i muri portanti e fare la manutenzione periodica per lo scorrimento delle acque pluviali.Si concentrano in questo posto alcune case tipiche, con scale esterne, poggioletti e logge non più esistenti nel resto del paese. Proprio in questa parte del Trappeto, nel 1988, ambientavo la scena d’un mio disegno per l’illustrazione de “Lo zio d’America”. I murales, che sono lungo il muro del giardino del convento, furono una costola di questo mio libro. Chi adopera ancora gli scantinati di queste case, racconta che di domenica qui arriva diversa gente a guardare e a curiosare. Questa è già una premessa positiva. Il resto è delegato a chi può e deve fare i passi giusti, per salvare quantomeno il salvabile, prima che sia veramente troppo tardi.

"Barracca"- porta della cinta muraria meridionale di Montecalvo

 

Interno di una casa al trappeto

 

Palazzo De  Cillis - in via Longara Fossi

La chiesa di San Gaetano Thiene.
Nell’agosto 2000, in occasione della conferenza “I Giubilei e Montecalvo”, organizzata dal Comune, e a cui partecipavo come relatore, facevo la conoscenza di Lucia Portoghesi, anche lei relatrice, archeologa e fondatrice del museo di Altavilla Irpina, nonché esperta di tessuti antichi. Qualche giorno dopo ero in visita al museo di Altavilla, bene allestito e ricco di importanti reperti. Lei, che mi faceva da guida, mi confidava che probabilmente le sarebbe stato affidato l’incarico di aprire la cripta della chiesa di San Gaetano Thiene a Montecalvo, edificata nel 1653 dal barone Battimelli e poi lasciata in eredità alla famiglia Bozzuti, ramo materno di San Pompilio Maria Pirrotti, unico santo dell’Irpinia. Gli obiettivi sarebbero stati il recupero, lo studio e la valorizzazione dei reperti in essa contenuti, con le salme dei componenti della famiglia Bozzuti che ancora vi sono sepolte. Chiedeva la mia disponibilità a collaborare con lei in quell’impresa, per me inusuale e affascinante. Naturalmente acconsentivo. Ma quel progetto sarebbe finito a ppaglia d’uóriju, come si diceva una volta in paese, cioè in un nulla di fatto. Data dal 1962 l’abbandono di questa chiesa. Per anni ne è stato fatto scempio, attraverso un uso dissacrante e vergognoso. Si è consentito di adoperarla come stalla, dimora d’asini e capre, d’imbrattarla di sterco. E i conigli scavavano tane sotto l’altare. Di essa restano ancora in piedi i muri perimetrali. E la cripta è sempre lì, probabilmente intatta. Fino a quando non crolla il pavimento. Mi capitava di leggere recentemente che essa non rientra tra le 378 chiese, per le quali la regione Campania ha stanziato fondi per la manutenzione ordinaria e straordinaria. Trovo personalmente questa cosa assai grave, perché, trattandosi di un luogo rilevante storicamente per il paese, chi doveva muoversi, per accedere ai fondi regionali, ha omesso di farlo.

Chiesa di S.Gaetano da  Thiene

Interno chiesa san Gaetano

Strutture disastrate ma recuperabili.

Curiosando per le campagne di Montecalvo, dove i ripetuti terremoti e l’incuria umana hanno avuto un evidente effetto sinergico negativo e distruttivo, si scopre con sorpresa che non tutto, per fortuna, è perso irrimediabilmente. Anche se quasi tutti gli antichi casini sono stati atterrati, tra le tante costruzioni moderne e anonime, edificate con i fondi per la ricostruzione post terremoti, spesso disabitate, o forse mai abitate, se ne incontrano alcune disastrate, ma ancora di grande rilevanza e dignità. E se vi fossero le indispensabili risorse finanziarie, l’interesse e la buona volontà della gente, e la sensibilità di qualche intelligenza illuminata, molto del nostro passato, della nostra storia, della nostra cultura, con gli opportuni progetti di recupero e risanamento, si potrebbe ancora recuperare, salvare e tramandare. Altrimenti non resta che archiviare con fatalismo questa perdita che attiene alla memoria collettiva, con la conseguente cancellazione della storia dei luoghi, in cui tante famiglie, per secoli, generazione dopo generazione, hanno lavorato duramente e sacrificato la propria esistenza. Se si ritrovassero, attraverso queste strutture rinate, il nostro passato e la nostra cultura, ci si riapproprierebbe dell’identità perduta, si riscoprirebbe un mondo di valori e il senso di un’appartenenza smarrito. Non va trascurato che il loro recupero potrebbe creare le premesse per nuove opportunità di lavoro ed essere quindi una fonte di reddito per i giovani della zona, incoraggiandoli a non abbandonare la propria terra per andare a cercarsi altrove un incerto avvenire. L’idea del recupero mi balenava, osservando l’ottimo lavoro che è stato fatto per la chiesa di San Nicola, proprio a Corsano che, fino a qualche anno fa, era un rudere col tetto sfondato. I muri pericolanti stavano a malapena in piedi. Ebbene, a questa chiesa è stata restituita una dignità nuova di luogo di culto, nel rispetto della tipologia architettonica originale. Si è provveduto a salvare, in questo modo, non solo un luogo di fede, ma sicuramente un edificio che, assieme al castello, è anche un punto nodale della storia della contrada. E con i tempi che corrono non è poco. Ebbene, prendendo spunto dall’esito del recupero di questa chiesa, meritano di essere portate all’onore della cronaca tre strutture eclatanti, per le quali si dovrebbe intervenire per tentare un salvataggio, sicuramente non facile, ma con i mezzi e gli accorgimenti tecnici di cui oggi si dispone, probabilmente non impossibile. Si può restituire ad esse la dignità di luoghi di storia e di cultura. «Ma si tratta di strutture private!», mi par di sentire. E l’obiezione si ripete all’infinito. Certo, si tratta in tutti i tre casi di strutture private, e questo non fa che complicare le cose. Ma l’Ente pubblico non può stare a guardare sempre passivamente, fino a che l’ultima pietra non sia definitivamente caduta.

Se il privato non ha i fondi necessari, o non ha interesse a investire risorse nel recupero delle proprie strutture architettoniche disastrate, che hanno o possono avere rilevanza storica e sociale, e fare da traino per l’economia e lo sviluppo della realtà locale, è proprio la Pubblica amministrazione che dovrebbe attivarsi, perché edifici come questi non vadano persi definitivamente.

Il Castello di Corsano  prima del 1930

Il Castello di Corsano.

La prima struttura in questione è il Castello di Corsano, che faceva capo a un feudo autonomo nel medioevo. Era diverso e forse esteticamente più bello del castello di Montecalvo, perché più residenza abitativa civile che fortezza. È crollato a seguito dei terremoti del Novecento: 1930, 1962 e 1980. È invaso dalla boscaglia che avanza inesorabilmente, come la giungla nei templi della Thailandia, o del Messico dei Maya e degli Aztechi. Ma diverse strutture murarie sono ancora in piedi. E poi al suo interno si trovano i pezzi del frantoio dell’olio, funzionante ancora alla fine degli anni Cinquanta, integri nelle parti metalliche e in pietra. Esistono di esso le foto scattate prima del terremoto del 1930. Si potrebbe recuperare e ricostruire buona parte dei suoi ambienti crollati, risanarlo e destinarlo alla storia della produzione del grano, dell’olio e del vino, istituendovi un Museo della civiltà contadina. In questo modo lo si farebbe diventare un luogo di storia e archeologia sociale, raccogliendovi i reperti e gli strumenti di lavoro dismessi, ancora reperibili sul nostro territorio.

Il casino di Stiscia in contrada Marinella.

Del casino di Stiscia rimane in piedi solo metà facciata, quella di destra guardando con le spalle rivolte al paese. L’altra metà fu abbattuta in ottemperanza alla legge sulla ricostruzione post terremoto. In seguito è crollato il tetto ma è rimasto il solaio del primo piano. È una costruzione pervenutaci dai secoli passati (che risalga all’epoca normanna?). Già restaurato e ripristinato in passato, con le sue sajittére, feritoie da cui sparare, era degno delle più belle masserie fortificate di Puglia. A osservarlo nello stato in cui è attualmente, suona come un delitto aver abbattuto parzialmente una struttura unica nel suo genere, consentendo che fosse ridotto nello stato pietoso in cui si trova. Andava risanato interamente e non ordinato l’abbattimento parziale, per lo sfruttamento della perizia per l’edificazione di una casa colonica qualunque. Suona come una beffa che, poco distante, sia stato edificato uno pseudo-castello medievale, turrito e merlato, degno di un villaggio di cartapesta di Walt Disney. E tuttavia questo casino si potrebbe ricostruire nella parte abbattuta e risanarlo prima di tutto nella sua facciata, e poi anche nel suo insieme. Di sicuro rivivrebbe ancora per qualche secolo e lo si potrebbe inserire in un itinerario agroturistico.

Attuale stato del Castello di Corsano

 

Il complesso edilizio della Malvizza.

Il complesso edilizio della Malvizza è costituito dall’antica Taverna del Duca, dalla masseria di Stiscia, con l’annessa chiesa, dal casino e dalla masseria di Manzella, un lungo abbeveratoio e altre costruzioni abbandonate che erano adibite a stalle o a depositi. Esso si trova sulla strada, al bivio per Ginestra degli Schiavoni e Castelfranco, il che non guasta. È un nucleo architettonico straordinario. Unico nel suo genere. Non ve ne sono di simili in giro. Un complesso fantastico, solo a osservarlo. Pure nello stato di abbandono e sofferenza in cui versa da anni. E il tutto si arricchisce di un’aura particolare che rimanda al mito antico – le Bolle della Malvizza, Préta pìcciula, il Ponte dei diavoli, il Tratturo – che aleggia ancora su questo vasto paesaggio rurale, già frequentato dai cacciatori raccoglitori del paleolitico, e che da sempre ha alimentato l’immaginario collettivo. A Villamaina (AV) si sta recuperando, e reintegrando nelle parti crollate, la locale Antica Taverna. Sulla sua tabella tecnica esposta, è scritto che essa è da destinare ad attività ricettive culturali e turistiche nell’ambito del “Patto Turismo”. Alla luce di questo fatto, non si capisce perché non debba essere recuperata anche la Taverna del Duca, che oggettivamente è molto più bella di quella di Villamaina. Ipotizzando il recupero delle altre strutture, le masserie, la chiesa e il casino, si potrebbe progettare l’istituzione di un “Parco Architettonico Rurale della civiltà agropastorale alla Malvizza”, per recuperare una cultura cancellata, un’agricoltura e una pastorizia dimenticate. Pur con un occhio al passato, esso potrebbe proiettare verso il futuro, attivando sinergie, risorse umane e finanziarie per un’agricoltura adeguata alle esigenze attuali. E la Legge sul censimento delle masserie, e il finanziamento per il loro recupero, sarebbe uno strumento idoneo, per intraprendere una via possibile verso una rinascita. La creazione di un parco siffatto dovrebbe privilegiare la riscoperta dell’artigianato, la valorizzazione dei prodotti locali di nicchia, l’attivazione di circuiti turistici e di svago, il gemellaggio fruttuoso, e non solo di facciata, con aree geografiche similari più fortunate e importanti, la valorizzazione delle risorse ambientali, storiche e archeologiche. Non ci si dovrebbe mai dimenticare che, tutti insieme, abbiamo un dovere verso le generazioni future: non si può lasciare loro un mondo inquinato, impoverito di risorse e beni culturali, senza prospettive e una speranza di crescita in cui credere. Recuperare queste strutture sarebbe come dare dei punti cardinali di riferimento e qualche certezza, in un luogo che ne ha tanto bisogno.È chiaro che queste costruzioni, se ristrutturate, dovranno tornare a nuova vita. Non potranno essere le nuove cattedrali nel deserto. Il Sud ne ha già sofferto tanto in passato e per il futuro non ne ha assolutamente bisogno.

 

Taverna del Duca alla Malvizza

 

Masseria di Stiscia alla Malvizza

 

Ingresso della masseria di Stiscia alla Malvizza

Nota.

A mo’ di chiusura.  Quest’articolo nasce soprattutto da un’urgenza personale, che covavo dentro, come un peso insopportabile, da troppi anni.

Ho dovuto fare quasi violenza a me stesso, per trovare le parole giuste e modulare i toni per non esternare solo rabbia. Ma posso assicurare che esso sintetizza, almeno in parte, anche il pensiero di altri montecalvesi che, avendo scelto il silenzio, la propria rabbia la reprimono. Ed essa produce nel tempo mugugni e rancori. Alcuni dimorano ancora in paese. Altri sono altrove, perché emigrati. Ma almeno una volta l’anno tornano e vedono come vanno le cose. Ed è lampante che non vanno bene. Temo pure – e questo è più di un vago sentore, che nasce dalla saggezza contadina assorbita da ragazzo – che, scrivere di queste cose, che per me equivale a dirle a voce alta, è come predicare nel deserto o urlare ai sordomuti. Le vacue promesse, alla stregua di chiacchiere futili, e il fatalismo non tardano a stendere, sulla rassegnazione irpina e meridionale, un pietoso velo di silenzio, nell’oblio più totale.

            Montecalvo, 3 novembre 2005                                    Angelo Siciliano

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