Nel luglio del 1831, in seguito sollecito degli amministratori Nicola Cavalletti e Saverio Lo Casale, il consiglio d’intendenza del principato ulteriore costringe il comune di montecalvo «all’esazione dei crediti risalenti all’amministrazione di Nicola Maria Morelli per l’anno colonico 1822-1823, di tomoli di grano 422,06, giusta la posizione del contabile salvo il miglior calcolo e le ragioni del monte per le maggiori quantità forse omesse […]».
[…]
Intorno al grano ruotava la vita comunitaria ed economica del paese.
Certamente fino alla prima metà del milleottocento, il comune porrà all’asta la privativa della panatica chiedendo ferree garanzie di servizio e, soprattutto, di qualità del prodotto, a partire dalla selezione delle sementi fino ad esercitare un rigido controllo sulla perfetta panificazione.
L’affitto della panatica, con quelli della pizzicheria, del macello, e del vino rappresenta una delle voci fisse nel bilancio comunale e questo fino alla metà del XIX° secolo, allorché lo stato discusso del 1851, lo esclude dagli introiti fissi.
La voce principale negli introiti comunali era rappresentata dalla tassa sul macino, impopolare perché incidente su un genere di primissima necessità, ma inevitabile per il funzionamento stesso del comune.
Dalla seduta decurionale del 5 dicembre 1843 rileviamo che la molitura del grano e granone forniva alle casse comunali i ducati 2.259,85 per la soddisfazione dei bisogni ordinari, e ducati 636,9 per i bisogni straordinari.
Ne conseguiva che la base d’asta per l’appalto sul macino, che, di norma, si affittava a privati, era di 2.895 ducati e 94 grani.
L’appaltatore avrebbe riscosso «da tutti gli individui che recano a macinare nei mulini il grano e il granone, grani 10 per ogni tomolo di grano composto di rotoli 48, e grani 8 per ogni tomolo di granone composto di rotola 36».
Considerata la ragguardevole produzione dei due generi si sarebbe dovuto trattare di un appalto più che conveniente, ma la realtà era ben diversa.
Nonostante la preoccupazione e le precauzioni del comune, relative all’effettivo pagamento del macino da parte dei residenti, fossero notevoli era, di fatto, quasi impossibile ricavare quanto preventivato. Le ragioni di tale situazione vengono esposte dagli stessi amministratori nella seduta del 3 novembre 1848: il decurionato considera che lo stabilimento dei dazi e privative avvenute in questo comune fin dal 1844 ha prodotto danno a tutti i cittadini, e principalmente alla classe dei meno agiati. Quindi, ancora considera non potere aver luogo il dazio sul macino in questo comune perché, come ristretto di tenimento fa si che quasi la terza parte degli abitanti coltiva dei terreni dei convicini comuni, ove, come sicuri delle ricerche di quest’amministrazione, escludono il pagamento anche di quei generi che vengono a consumare nella patria, trasportandosi dolosamente il pane cotto nei forni appositamente costruiti nelle case rurali, perché esistendovi in questi dintorni da circa cinquanta macchine idrauliche in cui portare si può il genere a sfarinare e nel tenimento moltissime abitazioni rurali, e le cosiddette grotte, rendono ogni vigilanza inutile, e son più le frodi che si commettono senza indagare gli autori, che quelle che si scovrono; che se poi si volessero moltiplicare gli invigilanti, il prodotto verrebbe da questi assorbito tanto che ve ne sarebbero necessari.
Il 26 luglio 1851 «i signori decurioni don Nicola Cavalletti e don Antonio Morelli» vengono delegati, dal consesso decurionale, alla riscossione del dazio pel macino.
Nella seduta del 24 ottobre successivo vengono riconfermati in tale compito.
Continua
Giovanni Bosco Maria Cavalletti